Osservo la pioggia, leggera come polvere, mangiarsi impercettibilmente la polpa bianca di una neve vecchia e ostinata. Due giorni fa, lunghe file di auto in coda all'autolavaggio: a che scopo?, mi chiedevo. Bisogna avere l'auto lustra per andare a pranzo dai parenti? O per caricarsi di cibarie al supermercato? E quanto si può arrivare a mangiare? Di quanto di tutto quel cibo abbiamo davvero bisogno?
Natale è un giorno triste sempre, anche quando, come oggi, scelgo di disertare pranzi e aspettative altrui, restando al di qua del vetro ad osservare la pioggia. Nella bruma incolore si agitano le contese degli uccelli per le ultime delizie d'inverno.
Quando ho appreso la notizia dell'incendio divampato in una fabbrica tessile in Bangladesh ho pensato immediatamente ai miei nuovi pantaloni di velluto color melanzana, acquistati da Benetton per € 29.95: sono stati prodotti in Bangladesh, forse proprio nello stesso edificio andato in fiamme ieri, o comunque in un casermone analogo, sprovvisto di sistemi di sicurezza, da donne sottopagate. È il genere di abbigliamento che le persone con un reddito medio-basso come il mio (cioè la stragrande maggioranza degli europei, par di capire) si può permettere. Mi sono sentita minuscola e impotente, infimo ingranaggio di un meccanismo inarrestabile; vittima e complice al tempo stesso, mi sono ricordata di questo passo de La Peste di Camus:
"Da tanto tempo ho vergogna, vergogna da morirne, di esser stato, sebbene da lontano, sebbene in buona fede, anch'io un assassino. Col tempo, mi sono semplicemente accorto che anche i migliori d'altri non potevano, oggi, fare a meno di uccidere o di lasciar uccidere: era nella logica in cui vivevano, e noi non possiamo fare un gesto in questo mondo senza correre il rischio di fare morire. Sì, ho continuato ad aver vergogna, e ho capito questo, che tutti eravamo nella peste; e ho perduto la pace. Ancor oggi la cerco, tentando di capire tutti e di non essere il nemico mrtale di nessuno. So soltanto che bisogna fare quello che occorre per non essere più un appestato, e che questo soltanto ci può far sperare nella pace o, al suo posto, in una buona morte. Questo può dar sollievo agli uomini e, se non salvarli, almeno fargli il minor male possibile e persino, talvolta, un po' di bene. E per questo ho deciso di rifiutare tutto quello che, da vicino o da lontano, per buone o per cattive ragioni, faccia morire o giustifichi che si faccia morire." (Traduzione Beniamino Dal Fabbro, Bompiani)
Stamattina il chiacchiericcio dei merli era così sguaiato da strapparmi al sonno. Mi sono alzata allarmata, con la sensazione che la piccola comitiva nera si fosse data convegno nel mio giardino per discutere qualche faccenda di particolare gravità. Ma è bastato che aprissi la porta perché l'intera comunità frullasse via all'istante, lasciando dietro sé il silenzio dei rami nudi.
Le talpe, intanto, procedono incessanti a trapanare campi.
Quanto a Rebecca, non l'ho mai vista mangiare così tanto: come un neonato, ogni due ore esige un po' di pappa e riesce sempre a estorcermi una dose supplementare di croccantini. Come se si stesse attrezzando contro difficoltà imminenti. Forse l'inverno è alle porte.
Oh the leaves how they shimmer Trees lift their skirts and they quiver Gently they lay down To the dirt and dust and ground
They lose their innocence to find it all over Ain't nothing missing, they 're just high on a feeling All they need is believing, no reason will do I'm hanging on like the last leaves of autumn But I'm coming through like the first shoots of spring I'm standing outside of space and time And I'm healing Believing
I'm ready for a first time feeling Something I can believe in I'm ready for a first time feeling Awaken sleeping season
Come diceva una canzone assai in voga nei tristi anni della mia infanzia, la valigia sul letto è quella di un lungo viaggio; in realtà, in programma non ho una vacanza, ma un soggiorno - lungo non si sa quanto - presso un ospedale varesino.
Da qualche tempo, ben prima di poter sospettare il triste verdetto, contemplavo l'inutilità dei miei giorni con lo stesso invincibile scoramento che invade il protagonista del racconto di Poe alla vista della casa degli Usher. Braccata e oppressa senza via d'uscita, sapevo che qualcosa doveva accadere. Tristemente, dimostrando scarsa fantasia, - ci sono così tanti modi per mettere alla prova il proprio attaccamento alla vita: scalare gli ottomila, fare il cooperante, ricominciare da zero in Nuova Zelanda e via dicendo -, l'unica exit strategy che sono riuscita ad escogitare è stata la malattia; e ciò nonostante la piena consapevolezza del mio potenziale autodistruttivo e degli effetti disastrosi che quel certo malessere psichico ha sul sistema immunitario. Sono dunque un'irriducibile, irrimediabilmente votata all'autodistruzione?
Ancora non lo so. Non vedo l'ora di entrare in sala operatoria per tranciar via di netto tutti i i miei fallimenti e le mie esitazioni; ma che razza di me stessa emergerà dall'anestesia è difficile a dirsi. Non ho ancora deciso.
Dice bene Patricia Petibon in una bella intervista sull'ultimo numero di Diapason: "Aussi vital que soit le travail d'équipe, il arrive toujours un moment où le chanteur est seul face au public, seul comme au jour de notre mort.". Un cantante fa delle scelte ben precise quando si assume la responsabilità di un ruolo - non a caso Patricia Petibon, dopo aver associato il proprio nome alle arie di coloratura dell'opera barocca, è approdata alla Lulu di Berg. È certo più intelligente, e psicologicamente più sano, sfidare se stessi su un palcoscenico che in sala operatoria. Mi pento e mi dolgo della mia pigrizia - o del mio innato autolesionismo - che ha accartocciato dentro di me la creativa per far emergere un'improbabilissimo individuo normale. In sala operatoria si è soli di fronte al proprio destino come quando si muore; e si è nudi e impotenti come quando si nasce. Uno snodo cruciale in un punto cruciale della mia vita.
C'era una quantità di libri e film di cui avrei voluto parlare. Non l'ho fatto perché avevo smarrito la voce, mi sentivo come chi non ha più casa. Ero perfettamente consapevole di aver perso il controllo della mia vita. Ero in balia degli eventi, attendevo solo di essere aggredita dal destino: mi chiedevo solo che maschera avrebbe scelto, il destino, per presentarsi alla mia porta e chieder conto della mia sciagurata inanità.
Naturalmente ora rimpiango di non aver vissuto abbastanza, di aver dato troppa importanza a ciò che avrebbe potuto non averne. Riconosco di non aver saputo guidare la mia esistenza. Non resta molto da dire. Al bisturi la sentenza. Se mai dovessi ritornare a scrivere su queste pagine virtuali, lo giuro, non sarà per raccontare la malattia. Come scrisse Mervyn Peake, "to live at all is miracle enough".
"Durante un giorno triste, cupo, senza suono, verso il finire dell'anno, un giorno in cui le nubi pendevano opprimentemente basse nei cieli, io avevo attraversato solo, a cavallo, un tratto di regione singolarmente desolato, finché ero venuto a trovarmi, mentre già si addensavano le ombre della sera, in prossimità della malinconica casa degli Usher. Non so come fu, ma al primo sguardo ch'io diedi all'edificio, un senso intollerabile di abbattimento invase il mio spirito.
Contemplai la scena che mi si stendeva dinanzi, la casa, l'aspetto della tenuta, i muri squallidi, le finestre simili a occhiaie vuote, i pochi giunchi maleolenti, alcuni bianchi tronchi d'albero ricoperti di muffa; contemplai ogni cosa con tale depressione d'animo ch'io non saprei paragonarla ad alcuna sensazione terrestre se non al risveglio del fumatore d'oppio, l'amaro ritorno alla vita quotidiana, il pauroso squarciarsi del velo. Sentivo attorno a me una freddezza, uno scoramento, una nausea, un'invincibile stanchezza di pensiero che nessun pungolo dell'immaginazione avrebbe saputo affinare ed esaltare in alcunché di sublime."
Edgar Allan Poe, Il crollo della casa degli Usher (Trad. M.Gallone, BUR)
Non ho rimpianti, non chiamo, non piango, tutto passerà, come fumo dai bianchi meli. Afferrato dall'oro dell'appassimento Io non sarò mai più giovane.
Tu ora non batterai più così, Cuore, toccato dal freddo, E il paese intessuto di betulle non mi attirerà a bighellonare a piedi nudi.
Spirito di vagabondo! Tu sempre più di rado, di rado Fai muovere la fiamma delle labbra O mia freschezza perduta, Ardire degli occhi e piena di sentimenti.
Tutti noi, tutti noi in questo mondo siamo destinati a morire, Dagli aceri quieto fluisce il rame delle foglie... Sii tu per sempre benedetto, Tu che sei venuto per fiorire e morire.
Una Tac è una Tac, è chiaro. E il mezzo di contrasto è quel liquidino che, una volta in vena, per una manciata di secondi ti fa sentire incandescente. Se però ad accompagnarti in una simile indesiderata avventura ci sono persone gentili, pazienti, comprensive, che provano a distoglierti dalle tue ansie, che ti chiedono mille volte come ti senti, se è tutto ok, se ce la fai da solo o hai bisogno di una mano, a esame ultimato almeno non ti resta addosso niente di traumatico; il che, in tempi di malattia, non è poco.
Milletrecento euro al mese guadagna una persona che ha il delicato compito di accogliere creature (d'ogni età, indole e povenienza) impaurite, prepararle all'esame, iniettare loro il liquido e badare che tutto funzioni a dovere. Milletrecento euro e un impiego diviso tra due ospedali ("ci mandano una settimana qua e una là"). Dopo trent'anni di lavoro.
Qualcuno mi dirà che, stipendio o non stipendio, la gentilezza, al pari del coraggio, uno non se la può dare. È vero fino ad un certo punto. Perché se è ovvio che la gentilezza in una persona non è direttamente proporzionale allo stipendio, è altamente probabile che un trattamento economico e umano inadeguato - per non dire umiliante - generino disamore per la professione. Se l'immenso capitale umano e professionale del personale medico e paramedico continuerà ad essere gestito esclusivamente secondo le fredde logiche dell'economia aziendale possiamo aspettarci solo il declino di un sistema sanitario nazionale che, in linea di massima, resta invidiabile. Certo la gentilezza di medici e infermieri da sola non cura, ma non ho dubbi sul fatto che aiuti a guarire.
Parcheggiò all’ombra dei platani e si sentì al sicuro. Sapeva di aver collocato l’auto perfettamente all’interno del perimetro rettangolare blu: un pensiero che infondeva sollievo. Poteva dormire. Voleva dormire. Chiudere gli occhi e abbandonare il capo. Avrebbe sollevato sospetti nei passanti? Qualcuno si sarebbe permesso di bussare al finestrino e chiedere se tutto era a posto? Probabile. Un tempo nessuno veniva a romperti le scatole se ti addormentavi in macchina. Adesso non si poteva dire. La testa della gente è assediata dalla televisione, pensò: ogni inezia è buona per cavarne una trasmissione. La gente non ha più pace, si disse: i telefoni, internet, i giornali. Trasalì al pensiero delle quattro recensioni che avrebbe dovuto consegnare l’indomani. Quattro recensioni. Gli risultava incomprensibile come la gente riuscisse ancora a creare, scrivere. E scrivere romanzi, poi. A lui le parole erano volate via da un pezzo. Gli piaceva il vocabolo afonìa per descrivere l’appassimento della sua fede nella parola. La disperazione soffoca le parole come il vomito annega il respiro. Una verità lapidaria da trascrivere con urgenza. Ma si ricordò di non avere una penna. Aveva con sè un blocco per appunti, ma non una penna. Si compatì: trascrivere a che scopo?
Lo confortava il pensiero di avere già acquistato in una precedente occasione i tagliandi prepagati per la sosta: non aveva dunque bisogno di trascinarsi fino all’edicola. Si prese del tempo per recuperare energia; restava da decidere in quale bar fare colazione. Pensò al caffè vicino al tribunale, dove le brioche erano bionde, piene di zucchero a velo e per niente burrose, e l’espresso era sempre accompagnato da un preziosissimo bicchierino d’acqua. Ma si sentiva troppo rintronato per fare colazione accanto a giudici e avvocati: tutto in loro - dalle borse di cuoio alle voci acide cariche di sottintesi - gli incuteva soggezione.
Aprì la portiera e incontrò i cubetti di porfido rosso che, nelle zone d'ombra, assumevano la sfumatura di certe foglie d’acero: era la sua città, era al sicuro, finalmente. Non si era mai sentito così parte della città come da quando l’aveva lasciata.
Si decise per il bar delle commesse, sotto i portici, circondato dai grandi magazzini. Non era facile mettere in moto un corpo tanto logoro, costringerlo a dialogare con una mente annebbiata. Lo confortava il pensiero che nel bar delle commesse avrebbe potuto sedersi su una di quelle pratiche sedie arancioni che già gli avevano riscaldato certe gelide mattine invernali.
Nel buio del sottopassaggio si accorse di una giovane donna che avanzava a passo spedito alle sue spalle: la vide riflessa nella vetrina ancora oscurata di uno dei tanti megastore della zona. Si immaginò che fosse giovane per via degli abiti attillati – leggins e maglietta – e della capigliatura sbarazzina ma in realtà poteva distinguerne solo la figura nera, perfettamente omogenea e ben delineata, dentro l’oscurità della vetrina. Vide la figura nera crescere di dimensioni davanti a lui con regolarità, come su uno schermo, e si ricordò improvvisamente di un video di Bill Viola – una mostra, da qualche parte nel mondo - in cui una donna in lunghi abiti scuri – nero e blu inchiostro i colori dominanti – avanzava a passo deciso su una spiaggia o nel deserto, non ricordava con precisione. Ma era il movimento, il movimento regolare, l’incedere, la progressione lenta e inesorabile: era questo a incastrare la sua attenzione, a scolpire finalmente una traccia vitale nella sua immaginazione offuscata.
Scatto della luce, fine del tunnel. Bar delle commesse. Contrariamente alle previsioni, nella saletta solo due uomini di una certa età immersi nella lettura del quotidiano locale. Niente frotte di commesse-ragazzine raggrumate attorno ai tavoli a chiacchierare di unghie e vestiti.
La ragazza che prendeva le ordinazioni gli piaceva perché era sveglia, senza fronzoli e portava occhiali dalla spessa montatura nera. Ha già ordinato, signore? Facciamo un po’ di spazio sul tavolo, vuole, signore? Mi dica, signore! Sì certo! Pratica, educata e veloce. È così che si lavora, pensò. Così gli sarebbe piaciuto lavorare.
Cercò di far durare caffè e brioche il più a lungo possibile e, non sentendosi ancora pronto ad affrontare il giorno, estrasse dallo zaino alcuni articoli stampati da siti di quotidiani stranieri: ne aveva a decine, e alcuni risalivano a settimane prima, e si riferivano a stragi, crisi, tragedie ormai risolte, in un modo o nell'altro, o semplicemente superate da nuove stragi, crisi, tragedie. Non riuscì a mantenere a lungo la concentrazione. La sua immaginazione virò di nuovo verso le installazioni di Bill Viola. Ripensò al video con l'abito scuro della donna che lentissimamente, ma con una progressione inesorabile, arrivava a riempire l'intero campo fino a trasformarsi in un'onda nera palpitante. Chi si fosse imbattuto nel video in quel punto non avrebbe mai potuto immaginare la donna e la sua lunga camminata. Tutti noi abbiamo una visione parziale delle cose, riflettè. E, quel che è peggio, da quella visione limitata, da un frammento, facciamo discendere il nostro concetto di oggettività. La nostra percezione della realtà. Il nostro bene e il nostro male.
Ricacciò gli articoli stranieri alla rinfusa dentro lo zaino, consapevole che stragi, crisi e tragedie non avrebbero mai avuto fine. Lo scoramento provocato da questa considerazione - e dal sospetto che la cronaca doviziosa di tante sciagure non fosse altro che una perversione utile solo ad alimentare la spirale - gli fece dimenticare la voglia di ritornare all'inizio del tunnel ad osservare altre figure - non certo la sua - ingigantirsi lentamente dentro lo schermo nero della vetrina.
Nella luce schiacciante del primo mattino si risvegliava la vita molle dei primi giorni senza scuola: le fermate degli autobus poco affollate, mamme coi figli appresso - ma solo quelli piccoli, però; gli adolescenti, si sa, amano dormire. Non era venuto in città per una ragione precisa, non aveva commisioni da sbrigare: si era semplicemente comprato un paio d'ore di autonomia, due ore di zona franca - l'auto nel perimetro blu, cioè la delimitazione e l'affermazione del suo spazio, un suo diritto, per un paio d'ore incontestabile.
Dopo aver girovagato a caso in qualche grande magazzino si sentì sopraffatto dall'abbondanza grottesca di capi d'abbigliamento in esposizione. Una quantità mostruosa che la città avrebbe potuto smaltire solo in un numero imprecisato di stagioni. La bruttezza dei capi lo affliggeva. Gli abiti destinati alle cerimonie erano patetici senza appello: gusto spagnolo e manifattura cinese davano vita ad un connubio indescrivibile. L'impronta mediorientale - applicazioni in cotone e perline - su giacche destinate a cresime e matrimoni risultava di una sciatteria nauseabonda. C'era una forma di violenza in quel cattivo gusto imposto alle masse, in quella volgarità seriale che non lasciava margine di scelta. E non volle chiedersi quali mani, in quali condizioni, avessero imperlinato quelle giacche dai colori improbabili.
L'atmosfera - irrespirabile - era drogata da una palpabile sciatteria della mente, dal totale immobilismo dell'immaginazione. E tutto questo mentre lui aveva appena scoperto il miracolo del movimento, le energie che un'immagine in movimento può far scaturire. La dimensione contemplativa del movimento.
I rintocchi provenienti dal campanile della basilica lo sollecitarono a ritornare sui suoi passi: le due ore di autonomia erano appena scadute e il rischio di una multa sventolante dal tergicristalli era molto concreto. All'interno dell'auto la temperatura era esplosiva ma lui aveva bisogno di assorbire tutto quel calore. Aveva delle scorie da bruciare.
Il temporale di stanotte ha abbattuto la mia dalia. Il suo bocciolo promettente era una delle poche cose che desse un senso a questo grigissimo scorrere dei giorni. Il bluesman sostiene che la dalia e il suo gambo energico ce la faranno, si rimetteranno in piedi presto. Sarà: ma alla luce dei nuvoloni neri che vanno addensandosi, mi è difficile credere alla resurrezione della dalia.
Esattamente trent'anni fa moriva Rainer Werner Fassbinder. A 17 anni, grazie alla Rai, avevo già visto tutti i suoi film più importanti, Berlin Alexanderplatz (integrale) compreso. Attraversai gli ultimi giorni di scuola con lo stesso animo desolato e schifato che mi ritrovo oggi: in classe certo non c'era nessuno con cui potessi condividere quella perdita. Era un dolore troppo privato, così privato che anche oggi mi disturba parlarne. I miei compagni pensavano alle vacanze, ma io non avevo vacanze in programma. Ricordo che mi comprai un sacco di classici tascabili supereconomici - Alfieri, Camus e chissà che altro - e trascorsi i primi giorni d'estate chiusa nella mia stanza a leggere.
Un paio di mesi più tardi, mio fratello A., con uno di quegli slanci paternalistici che ancora oggi ogni tanto sono costretta a rimproverargli, decise che ci avrebbe fatto bene visitare un po' di Germania. In un dorato giorno di fine agosto facemmo tappa ad Altdorf, consumando all'ombra di un albero secolare, nei pressi del convento dei cappuccini, le frugali provviste di cui ci aveva dotati nostra madre. Ci vide un anziano signore in completo e cappello nero, barba bianca e bastone da passeggio, che, nel silenzio assolato dell'ora più calda, percorreva il sentiero con pensosa determinazione. Era uno di quei giorni perfetti dai contorni nettissimi che solo la fine dell'estate sa regalare. Ebbi la sensazione di essere finita dentro un libro di Hermann Hesse e mi vergognai un poco delle briciole di plum-cake che andavo spargendo e del frusciare della carta stagnola.
Zurigo, Monaco e Stoccarda, dove giungemmo all'ora malinconica del tramonto: un gruppo di orchestrali - le donne in neri abiti svolazzanti - raggiungeva il luogo dell'esibizione. A differenza di noi due, tutti in quella città, a quell'ora, avevano una destinazione, un luogo da raggiungere. Dormimmo in una specie di bettola - credo che ci tornò utile l'essenziale tedesco turistico appreso nel corso delle vacanze infantili in Alto Adige - e la mattina ci fu servita una devastante colazione germanica. Dopo qualche giorno facemmo rientro in Italia attraverso il passo del Giovo: essendo rimasti quasi senza benzina, percorremmo tutto il passo in discesa a motore spento fino a Vipiteno.
Non provo alcuna nostalgia. Sono stata raramente felice nella mia giovinezza e, forse per questo, ho sempre provato una singolare attrazione per le persone infelici. Quel che rimpiango è la capacità che avevo un tempo di percepire una perdita come un'ingiustizia, e, conseguentemente, di reagirvi con una sfida. Oggi vivo il mio tempo come un'oppressione senza speranza, un dovere insensato senza via d'uscita.
Tra gli illustri rockers attempati - come ama definirli lei - che nel 2012 hanno tagliato il traguardo dei 70 in eccellenti condizioni artistiche, non va assolutamente dimenticato Alberto Radius. Il suono torvo e tagliente della sua chitarra ha caratterizzato buona parte della musica popolare di qualità degli anni '70 e '80; un suono dal retrogusto amaro e vagamente ironico, sostenuto da una raffinatezza nel fraseggio davvero raro nel panorama italiano. Ascoltare Strade dell'Est di Battiato per credere. Felice compleanno Alberto Radius.
In ufficio, di questi tempi, sono sottoposta a una pressione tale che l'unica strategia difensiva possibile è la fuga. Così oggi pomeriggio per evitare una crisi di nervi dalle conseguenze imprevedibili - il cuore si era fatto ballerino e la mente già proiettava con insistenza immagini di me digrignante, armata di matite appuntite e lanciata furiosamente contro il capo - ho chiamato in causa un impegno inderogabile e ho abbandonato la postazione un'ora prima del previsto.
L'aria aperta ha prodotto subito effetti benefici. Ho attraversato la campagna assolata dove i soliti tre signori un po' ingobbiti che vivono nella stessa casa - saranno fratelli? non si sa - tagliavano l'erba con la falce (ovvero facevano il fieno). Poi sono andata all'ufficio postale a spedire un messaggio di felicitazioni alla mia amica ormai naturalizzata dublinese che la settimana prossima convolerà a nozze in un romantico angolo della contea di Meath; inutile dire che la invidio molto: non per il matrimonio ma per la contea di Meath e per la naturalizzazione dublinese.
Dopo un salto al Bar degli Spettri - dove ho acquistato un grattaevinci da tre euro che ne ha fruttati ben dieci: ora sì che sono ricca - sono andata a far benzina e infine al supermercatino dei disperati a comprarmi un cestino di fragole.
Ed ora sono qui, con la malinconia che presto si tramuterà in angoscia, a contemplare il balconcino fiorito: un tripudio di rossi e rosa in ogni possibile variante e gradazione. Meno male che c'è Rebecca, la mia bellissima gattina enigmatica - tuttora un mistero insondabile - che schizza qua e là per il giardino, lucida macchia di velluto nero contro lo splendore dell'erba. Rebecca non è esattamente il gatto coccoloso che tutti sognano, però è, a modo suo, molto affettuosa ed estremamente comica, soprattutto quando dà la caccia a volatili che non potrà mai raggiungere.
Così le ombre calano sull'ennesimo nulla di fatto. Ci si accontenta di equilibri precari, ci si confronta con attese snervanti; in breve, si cerca di resistere. Un pensiero carico di affetto e nostalgia, a tutti i miei amici emiliano-romagnoli che per ben altre ragioni, in questo momento, si trovano a condividere il mio stato d'animo.
Rovistare nell'armadio in cerca delle mie scarpette scamosciate avendo negli occhi le immagini oscene delle carneficine siriane mi fa sentire un'idiota, una cretina scollegata dalla realtà.
Oggi pomeriggio sono stata al cinema, e in mezz'ora di trailers non ho visto un fotogramma che non grondasse sangue e terrore. Davvero la gente ha tutto questo bisogno di spaventarsi e nutrirsi di mostruosità? Ma che si guardassero su Youtube i video che arrivano dalla Siria. Forse il problema è che quelle teste spaccate sono tragicamente vere? Certo davanti a quella distesa di corpicini straziati è un po' difficile far calare il sipario autoconsolatorio della finzione, anzi, viene quasi istintivo turarsi il naso per non sentire l'odore del sangue.
Cosmopolis è un film intenso con una sceneggiatura preziosa (peccato non aver letto il romanzo). Immagino che a proposito di questo ultimo lavoro di Cronenberg qualcuno tirerà fuori il solito, temibile aggettivo "moralista" - stigma irrimediabile -, come sempre accade, del resto, quando viene messa in dubbio l'onnipotenza del denaro. Ma ho trovato singolare quell'insignificante particolare scovato per caso nei titoli di coda. Security to Mr. Pattinson. Voglio dire: vedi un film dove la security è tutto - ed è ossessionante, invasiva, asfissiante al punto che per riacquistare un minimo di autonomia sulla propria vita Packer deve eliminare fisicamente la propria guardia del corpo - poi leggi che l'attore che ha interpretato questo personaggio paranoico gira regolarmente con la guardia del corpo. Della serie: ok, abbiamo scherzato, era solo un film. Proprio come i film orrorifici dei trailers che giocano a terrorizzare spettatori annoiati e bisognosi di emozioni forti.
Forse era meglio lasciare il romanzo al suo posto ed evitare di farne un film. O magari sarebbe stato più serio e coerente ingaggiare un attore meno glamorous; puntare sulla qualità del film, sulla forza del messaggio, anche a rischio di un flop. Già, ma siamo sempre lì: e chi l'avrebbe ripagato poi quel flop?
Aveva ragione Battiato: il re del mondo ci tiene prigioniero il cuore.
Quando vedo la processione ignobile Fuoruscire da piccole soglie E volgersi verso la città, in rivoli che divengono ondate Di uomini in bombetta che si affrettano A fondersi a donne con borsetta Che hanno fretta, fretta, Su gambe che vanno veloci veloci In una fretta ignobile, per paura di far tardi, Io mi sento pieno di umiliazione. È la loro fretta Che è così Umiliante.
D.H. Lawrence, The Ignoble Procession, traduzione di Franco Buffoni (in Una piccola tabaccheria, ed. Marcos y Marcos 2012)
È uno di quei periodi in cui mi fa particolarmente male vivere. Qualsiasi cosa fa male. Certo la primavera coi suoi estremismi è fatta apposta per acuire questo stato di cose, e questo stato di cose mi rende particolarmente intollerante nei confronti degli imbecilli. Il che spiega perché l'altro giorno mi sia riuscito così facile mandare a quel paese il mio capo. Il quale ha poi reagito bonariamente cercando - senza successo - di minimizzare e ricucire lo strappo ("sembrava Berlusconi" a detta di un giovane collega presente alla zuffa).
Sta di fatto che stamane sono uscita di casa intenzionata ad acquistare un ombrello per il bluesman - essendo il suo andato distrutto durante una discussione particolarmente vivace in un'alba di tempesta - e mi sono ritrovata invece a girovagare senza meta per il centro di Varese. Dovevo anche andare a cercare un certo libro, ora che ci penso. Invece mi sono lasciata distrarre da un paio di simpatiche chanel che "bucavano" la vetrina di un negozio di calzature conservatrici: di vernice rosa bordate di rosso e viceversa, mi hanno fatto pensare a quei bizzarri modelli di Vivienne Westwood - con applicazione di golosissime ciliegie scarlatte o lucide sfere blu del tipo addobbo natalizio - viste a Londra un paio d'anni fa; tanto più che queste, se ho capito bene, andrebbero indossate spaiate, cioè su un piede una scarpa rosa bordata di rosso, sull'altro la rossa con rilievi rosa. Ricordo di aver letto da qualche parte che Helena Bonham Carter si presentò ad una serata di gala con scarpe di diverso colore. Certe arditezze in uno storico negozio conservatore del centro di Varese mi impressionano.
E che dire delle mid season promotions ostentate con falsa naturalezza da Benetton, Stefanel e Levi's?
Intanto però scopro che in Piazza del Podestà - Piazza del Garibaldino secondo la preferibile vulgata locale - ha aperto una boutique Dior nella quale tante piccole borsette dai colori orribili occupano ciascuna uno scaffale di cristallo. Poco più avanti sfavilla l'enorme, recentissima boutique Gucci. Quanto a Hermès, corre voce in città che "lavori tantissimo".
Constatato che anche dopo due caffè, il secondo dei quali offerto dall'estetista - sì sempre quella che non saprebbe cosa fare a Londra - la situazione non accennava a migliorare, mi sono dovuta arrendere all'evidenza: quando niente sembra andare per il verso giusto, quando nulla sembra fare veramente la differenza, quando non c'è bussola in grado di dare indicazioni, è il momento di comprare un paio di scarpe. Scarpe, sandali: non ha importanza. Una delle ragioni per cui ho imparato ad amare l'inverno è la possibilità che mi offre di indossare robuste scarpe di foggia maschile, quando non militare: uno spesso strato di pelle e gomma contro tutto. In estate do sfogo alla voglia di zeppa. Zeppa e plateau, possibilmente, o un tacco sufficientemente alto da staccarmi da terra, qualcosa che funzioni da isolante nei confronti della realtà.
I sandali che ho comprato stamattina hanno un valore aggiunto: le borchie anni '70 mi ricordano i tanto agognati zoccoli della mia preadolescenza: non un periodo felice, ma un tempo in cui sognare era vitale e l'istinto di sopravvivenza ancora intatto. Quasi che le mie nuove zeppe borchiate - dotate pure di corda e fibbie ben evidenti per un surplus di dettagli seventies - richiamando una mia antica identità, potessero in qualche modo ricollocarmi sulle strade del mondo, riavvicinarmi a un possibile centro di gravità. Un centro di gravità del tutto privato, sia chiaro, e soprattutto staccato da terra di almeno una dozzina di centimetri.
Appollaiata in posizione strategica in una cappella del transetto, in attesa della piccola messa solenne rossiniana, non riesco a staccarmi dai protagonisti del romanzo che ho appena finito di leggere. Tra le due opere – Pure di Andrew Miller e la Petite Messe Solennelle – non c’è alcuna relazione; eppure sento qualcosa di appropriato, quasi necessario, in questo abbinamento voluto dal caso.
Mi chiedo se non sia Parigi l’elemento forte in grado di trascinare fin qui, fino a questo altare di marmo chiaro - le due file di sedie che attendono il coro, i due pianoforti smaglianti e l’harmonium collocato al centro - la suggestione di un romanzo cupo, intriso di pioggia e putridume. Non è Parigi, concludo: eccezion fatta per qualche traccia linguistica, qualche arcaismo di chiara ascendenza francese, Pure è un romanzo profondamente inglese – solo gli inglesi sanno titillarsi così magistralmente col macabro, solo un inglese poteva accingersi con tanto stile alla descrizione dello svuotamento di un vecchio cimitero ammorbante. In ogni caso la Parigi in cui l’ingegnere Jean Baptiste Baratte compie la propria missione purificatrice è una Parigi che di lì a poco sarà stravolta dalla Rivoluzione, mentre Rossini concepisce la sua ultima opera importante in una città che ha ormai cambiato pelle più volte.
C’è però in entrambi i lavori il senso di una solitudine ostinata, un disagio esistenziale insopprimibile, un percorso intimo che, nonostante tutto, non può fare a meno di scavalcare le faglie della storia: una sofferenza individuale che, scavo dopo scavo, o nota su nota, sopravvive ai movimenti tellurici delle epoche e porta a compimento il proprio destino.
La famosa "fragilità" – oggi diremmo sbrigativamente depressione - di cui si doleva Rossini nel dorato e volontario esilio parigino era anche disagio nei confronti del Nuovo in arrivo (il wagnerismo rampante) e dell’onnipresente ipocrisia. Baratte, nel dissotterrare scheletri su scheletri (e pure qualche cadavere), vede distintamente come i sogni di gioventù non coincidano con la realtà, prende atto del fallimento di un idealismo finito letteralmente sotto terra. In questo confronto tra vecchio e nuovo, nel conflitto tra antichi splendori e fine del sogno, la tentazione di gettare la spugna è per entrambi fortissima.
Forse è proprio il Potere, la monumentale, granitica stoltezza del Potere a sollecitare la dignità dei due uomini – entrambi stranieri a Parigi - feriti dalla vita: il giovane ingegnere che dalla Normandia giunge in città con l’illusione di dare una svolta al proprio futuro e il compositore italiano di successo in crisi creativa. Lo scontro fra l’intelligenza dell’uomo e l’assurdità del Potere scatena una reazione propulsiva. Nel condurre a termine la propria missione impossibile – dissotterrare decine di migliaia di scheletri, ma si tratta di ordini impartiti direttamente da Versailles! -, scavando fuori e dentro di sé, Baratte si libera anche della propria zavorra individuale, di un vincolante retaggio famigliare.
Quanto a Rossini mi riesce difficile immaginare, per un compositore dell’epoca, un gesto più rivoluzionario della creazione di una messa da camera, in aperto dissenso con la bolla papale che impediva alle donne di cantare nei luoghi di culto. Mai il compositore avrebbe sottomesso la propria arte, la propria ispirazione e, perché no, la propria fede ad una assurda bolla papale. Una messa da camera più moderna di tanta musica ormai in voga nei teatri d’opera del tempo. Una messa che più soggettiva di così non potrebbe essere, con azzardi melodici e armonici che sembrano non avere fine e un pianoforte (harmonium e secondo pianoforte servono essenzialmente a rimpolpare il suono in alcuni frangenti) che sostiene tutto quanto: coro, solisti, l’intera struttura dell’opera. Una parte tecnicamente non troppo impervia che tuttavia necessita di un pianista dotato di una profonda sensibilità operistica (in questo senso massima lode a Vincenzo Scalera).
La Basilica di San Vittore rifulge in tutto il suo splendore barocco e non potrebbe essere più lontana dalla chiesa semidiroccata, annessa al cimitero degli Innocenti, che viene rasa al suolo nel romanzo di Andrew Miller. E improvvisamente mi ricordo che la parola conclusiva del romanzo è luce.
Per mantenersi fedele allo spirito del romanzo, Arnold imposta il registro dell'asprezza a tutti i livelli: il vento come unica colonna sonora, dialoghi ridotti all'essenziale, povertà e ignoranza, fango e sporcizia raccontati con la tipica ineleganza della macchina da presa a spalla. Per qualche minuto l'idea funziona: è proprio in un mondo fatto di ruvidezze che ha origine il rapporto esclusivo tra Heathcliff e Catherine - per sua natura un rapporto "contro" -, vero nucleo del capolavoro di Emily Brontë. Di fatto, l'iperrealismo di Arnold finisce per avvitarsi su se stesso: e così, dopo un'ora di fango e vento, brughiere senza pace e selvaggina sanguinante, ci siamo fatti un'idea molto chiara del fatto che gli esseri umani sono bru(t)ti e cattivi e il mondo si regge sulle ingiustizie ma siamo a metà film e l'iniziale spaesamento del giovane Heathcliff sembra non avere vie d'uscita, non subire evoluzioni di sorta. Quel che è peggio, per cementare il legame tra i due giovani protagonisti, Arnold decide di introdurre qualche indizio di carnalità morbosa totalmente estraneo al romanzo e lontanissimo dalla sensibilità di Emily Brontë.
Non paga di ciò, pur di risultare alternativa a tutti i costi, la regista decide che Heathcliff deve essere interpretato da un attore di colore. Scelta piuttosto inefficace dal punto di vista narrativo perché ha l'unico risultato di confinare Heathcliff nel ruolo evidente di schiavo, di "diverso" senza speranza. Colui che nella fantasia di Emily Brontë viene descritto come "dark skinned gypsy" - definizione vaga e meravigliosa che scatena la fantasia del lettore -, nel film è un bellissimo, taciturno ragazzino di colore costretto a passare la mano, quando è il turno di Heathcliff adulto, a un attore perennemente corrucciato e ripiegato su se stesso che non ha nulla, ma proprio nulla, del magnetismo inquietante di Laurence Olivier nell'indimenticata versione cinematografica di William Wyler.
Lo svolgimento del film è notevolmente sbilanciato a favore del periodo adolescenziale della storia; il rapporto tra Catherine e Heathcliff adulti viene tratteggiato in modo piuttosto sbrigativo ed è un vero peccato perché Kaya Scodelario è un'attrice ineteressantissima che avrebbe saputo esprimere perfettamente la complessa personalità di Cathy: lo spazio che le viene concesso è purtroppo piuttosto limitato.
Ossessionata com'è dal realismo e dai dettagli d'epoca - sembra che alle intepreti femminili sia stato chiesto addirittura di non depilarsi - Arnold trascura completamente l'aspetto gotico della storia, pare del tutto insensibile al concetto di mistero e alle inafferrabili dinamiche della comunicazione extrasensoriale. La scena in cui Heathcliff si avventa sul cadavere dell'amata ricoprendolo di baci, lungi dall'essere gotica, è semplicemente di cattivo gusto. E il tentativo di riesumazione della bara è semplicemente degno di un horror inclassificabile.
Questa recente rilettura di Wuthering Heights è, in estrema sintesi, un tentativo ambizioso non andato a buon fine: più che indagare gli abissi della psiche e restituirci le passioni d'amore come rapporti di potere, Andrea Arnold - al di là di parecchie cadute di stile - ci ha offerto essenzialmente un documentario ben dettagliato delle condizioni di vita nelle campagne inglesi nei primi decenni del secolo diciannovesimo.
Per favore, possiamo archiviare per sempre il Circo Barnum della Padania? Vogliamo una volta per tutte distogliere lo sguardo da quella sguaiata corte dei miracoli che a forza di lacrime, trote e scope, tracima senza sosta dalle testate dei giornali?
Voglio dire: è davvero il caso di sprecare tante energie per star dietro alle miserie di un movimento infame che non ha più alcuna chance di governare?
Voglio dire: in Siria si continua ad ammazzare senza ritegno e noi siamo ancora qui a chiederci chi sarà il prossimo segretario della Lega. Ma quanto ce ne può fregare?
Dovrebbero essere 135, tutti pakistani, prevalentemente soldati. Giacciono lassù, in un luogo impervio di terribile bellezza, al confine tra India e Pakistan, sepolti da oltre 20 metri di neve. Con ogni probabilità resteranno lì per sempre. Nessuno li troverà mai. Con certezza nessuno di loro avrebbe voluto trovarsi lì, a combattere una guerra incomprensibile e quasi segreta per il possesso di un ghiacciaio.
Di questa tragedia - l'ennesima storia di anime morte - in Italia si è detto il minimo indispensabile. Il radiogiornale della Radiotelevisione Svizzera di lingua italiana, invece, questa sera ha trasmesso un'intervista al giornalista svizzero Mario Casella che, per realizzare questo documentario, nel 2005 ha trascorso due mesi proprio nel luogo della sciagura: un mese nel campo base pakistano, un mese in quello indiano. Raccontava, Casella, di quei poveri soldati provenienti dalla città, dal mare: gente che non aveva mai visto un ghiacciaio e neanche se lo poteva immaginare. Raccontava della moltitudine di anime morte per congelamento, lassù a 6-7000 metri. Secondo il giornalista svizzero, il senso di questa guerra ad altissima quota che consuma un milione di dollari al giorno, starebbe tutto nell'acqua. Perché dal Siachen, il ghiacciao conteso, appunto, ha origine il fiume Indo e dunque la guerra del ghiaccio è in realtà guerra per il controllo di una sorgente. Una guerra per l'acqua che, secondo Casella, "prefigura i conflitti dei prossimi decenni".
Posso azzardare una proiezione? Tra qualche tempo - non subito, per carità - le aziende cominceranno a potare i rami vizzi favorendo l'ingresso di giovani virgulti con contratti d'apprendistato. Gli stessi giovani - comprensibilmente pagati poco in quanto apprendisti - dovranno provvedere al mantenimento dei genitori che, scaricati per anzianità, non avranno alcuna possibilità di rientrare nel mondo del lavoro.
Si dice che i commissari UE abbiano approvato l'operato del governo e ritengano che l'Italia abbia imboccato la strada giusta. A me pare che ci stiamo avviando a rotta di collo verso una recessione senza precedenti, inasprita da conflitti imprevedibili. Nel migliore dei casi, siamo diretti verso il nulla.
Mi fanno stare male le classiche incongruenze primaverili: aria gelida e fiori di pesco, cime innevate e grassi giacinti blu. Che sciocchezza - e che disagio - applicare i triti percorsi invernali a queste giornate invasive che pretendono ben altro. Nessuno può permettersi di perdere il ritmo stabilito da non si sa bene chi, ognuno si aggiusta il proprio malessere in corsa. Io mi difendo come posso. Freno. Non ho traguardi che si possano raggiungere rinnegando se stessi.
"Era un giorno grigio, c'era uno strano silenzio nel mare e nel cielo e nessun segno di vita, a eccezione della vela di una currach - o niavogue, come vengono chiamate qui - che stava rientrando dalle isole. Di tanto in tanto passava un carro pieno di anziani e bambini che mi salutavano in irlandese.
Poi sono tornato indietro e ho proseguito su una lunga strada che passava attraverso la torba, con una montagna dal dolce pendio su un lato e il mare dall'altro. Il monte Brandon, di fronte a me, era in parte coperto dalle nuvole. Per quanto riuscivo a vedere c'era un piccolo gruppo di persone che si stava dirigendo alla cappella di Ballyferriter; gli uomini con vestiti di stoffa grossa fatti in casa e le donne con mantelline blu o, più spesso, scialli neri avvolti sopra le loro teste.
Questa processione lungo le torbiere olivastre, tra le montagne e il mare, in un grigio giorno di autunno, mi ha dato quella stretta al cuore che spesso può capitare di sentire in Irlanda - un'emozione che è in parte propria del posto e tipicamente patriottica, in parte il risultato della desolazione che ovunque accompagna la suprema bellezza del mondo."
John M. Synge, Vagabondo in Irlanda, a cura di Nicola Manuppelli, Mattioli 1885
Non ha un colore stupendo? (Ottanio metallizzato: scelta molto originale ed elegante per un insetto di queste dimensioni, complimenti!). E poi, fintanto che se ne sta in giardino, che faccia pure lui il suo giro.
Puntuale, al sopraggiungere della prima ondata di caldo primaverile, è scoppiata l’invasione domestica dei ragnetti rossi. Microscopici e innocenti, arrivano dal prato, attratti dalle superfici candide: dotati di zampette infinitesimali, scivolano lenti sulle pareti immacolate del salotto e i più avventurosi esplorano i perimetri di libri e riviste. L’altro giorno un esemplare particolarmente ardito ha compiuto la traversata del monitor del mio pc.
Sono innocui e se ne vanno da soli, aveva spiegato tempo fa un addetto della disinfestazione convocato dalla mia collega superansiosa allorché i sanitari del suo bagno avevano preso a brulicare di inermi puntolini color mattone.
Oggi, notando che la particolare effervescenza delle bestioline su una parete del nostro salotto si stava estendendo anche al divano, ho chiesto al bluesman se non fosse il caso di prendere qualche provvedimento chimico, per quanto blando.
“Lasciali stare che se ne vanno da soli” ha ordinato il bluesman; e, certificata la sentenza con un bacetto sul naso, ha aggiunto: “Hanno diritto anche loro a farsi il loro giro”.
Mi meraviglio di aver scritto tanto in passato. Sono circondata da una realtà così mutevole che un fermo immagine non è proprio possibile. Non sarebbe realistico. Non so più dar conto di un evento senza considerare tutte le prospettive. Non ce la faccio a trarre conclusioni o definire stati d’animo. Non so trovare parole più efficaci del silenzio.
In generale, non sono pronta per la primavera, non sono pronta per la luce. Graziose le violette che regalano ombre di velluto ai boschi. Un lusso d’altri tempi. Ogni cosa è superflua e non c’è tempo da perdere. Come i poeti in tempo di guerra ho lo sguardo imbrattato di cadaveri, stracci insanguinati, mutilazioni e orrori. Volti terrosi e medievali di popoli in rivolta, povertà ancestrali e un tragico senso di impotenza. “Non è più tempo di sogni, devi lottare di più” diceva una nobile composizione della PFM.
Di molte cose ancora non ci rendiamo conto noi allievi della vittoria di Lenin E le nuove canzoni le cantiamo all'antica Come ce le hanno insegnate le nonne e i nonni
Amici! Amici! Quale spaccatura c'è nel paese, Quale tristezza nell'allegro ribollire! [...] Io accuso il potere sovietico Per questo sono offeso con esso, Perché la mia luminosa giovinezza Nella lotta degli altri non l'ho vista.
Che cosa ho visto? Ho visto solo la battaglia, E invece dei canti Ho sentito le cannonate. Non è forse per questo che con la testa gialla Ho corso a più non posso per il pianeta?
Nonostante ciò sono felice. Nel turbinio delle bufere Ho ricevuto impressioni irripetibili. Il vortice ha adornato il mio destino Con una fioritura intessuta d'oro.
Non sono un uomo nuovo! Perché celarlo? Con una gamba sono rimasto nel passato, Così cercando di raggiungere la schiera d'acciaio Con l'altra gamba scivolo e cado. Ma c'è dell'altra gente. Quelli Ancora più infelici e dimenticati. Essi sono come crusca nello staccio In mezzo ad eventi che non capiscono.
Io li conosco Io li ho sbirciati: I loro occhi sono più tristi di quelli delle mucche. Fra le opere pacifiche della gente Come uno stagno, il loro cuore si è ammuffito.
Chi getterà una pietra in questo stagno? Non toccatelo! Ne verrà fuori un odore di marcio. Essi moriranno dentro se stessi, Andranno in putrefazione come foglie cadute.
E c'è dell'altra gente, Quelli che credono, Che tendono al futuro un timido sguardo. Grattandosi il didietro e il davanti, Essi parlano di una vita nuova.
Io ascolto. Io nella memoria guardo, Di che cosa spettegola la miseria contadina. "Ci va bene vivere col potere sovietico... oggi però ci vorrebbe della tela... E un po' di chiodi..."
Di pochissime cose han bisogno questi barbuti, Tutta la loro vita sta nell'abbondanza Di patate e di pane. Perché allora impreco ogni notte Contro la sorte sfortunata, amara?
Io provo invidia, Per chi ha passato la vita in battaglia, Per chi ha difeso una grande idea. Io, che ho distrutto la mia giovinezza, Non ho più neppure i ricordi.
Che scandalo! Che grande scandalo! Mi sono trovato in uno spazio stretto. Potevo dare Non quello che ho dato, Quello che mi veniva come uno scherzo.
Cara chitarra, suona, suona! Modula, zingara, qualche cosa, Così che io possa dimenticare i giorni avvelenati, Che non hanno conosciuto né carezza né pace.
Lo so, non si annega la tristezza nel vino, Né l'anima si può curare Col deserto e il distacco. Ma forse, è per questo che voglio Rialzarmi i calzoni E correre dietro al komsomol.
“Pedro, scusami…in realtà ci sarebbe anche un altro cantautore italiano che mi interessa…”
“Come si chiama?” interroga Pedro dall’alto della sua pazienza.
“Lucio Dalla”
Pedro mi lancia addosso uno sguardo sgomento, arrotondato dalle lenti spesse. “Lucio Dalla!” ripete incredulo “Ma se è a tanto così di distanza da Branduardi!...” aggiunge rappresentando tra pollice e indice lo spazio che separa i due artisti lungo lo scaffale. “Tanto così e non l’hai visto?”
Mentre Pedro si procura di nuovo le chiavi dell’altro locale provo a spiegargli che cercare i dischi nel suo negozio, per me, è come sfogliare un dizionario: ingolosita, da una parola passo all’altra, il più delle volte dimenticando l’origine della ricerca. Quando poi resto sola nella stanza silenziosa - una sorta di bunker relativamente ordinato e privo di cianfrusaglie, un commovente tempio di cui, per un istante, mi sento la vestale – torno a inginocchiarmi là dove pochi minuti prima avevo cercato gli introvabili primissimi album di Branduardi e comincio a indagare la discografia di Dalla. Mi basta un’occhiata per capire che quel che voglio non c’è, ma mi ostino a esaminare con scrupolo, smaltendo la delusione con la lentezza della ricerca. Gli ultimi dischi di Dalla non so nemmeno come si chiamino. E per ultimi intendo tutto ciò che è uscito dopo il quasi omonimo del 1980, tutti dischi che non solo non ho comprato ma non ho mai nemmeno ascoltato. Mi sono persa qualcosa? Forse, non so, non credo. Per me Lucio Dalla è e resta altro, in ogni caso.
Lettera x, dov'è il segreto di Asterix?
Era un momento magico, quello della TV dei ragazzi. In un'epoca – i primissimi anni ’70 – in cui la trasmissione ininterrotta di cartoni animati non esisteva nemmeno nella fantasia, gli appuntamenti con i personaggi dei “cartoni” erano precisi, limitati nel numero e nella durata e perciò goduriosissimi. Lucio Dalla contribuiva in pieno alla goduria, perché quando mi piazzavo davanti al grezzo apparecchio in bianco e nero per la mia dose settimanale de Gli eroi di cartone, più delle avventure di Asterix aspettavo con trepidazione la sigla, frutto del genio compositivo e interpretativo di Lucio Dalla. Pochi minuti preziosissimi che mi gustavo dall’inizio alla fine, che speravo non arrivasse mai, cercando di catturare nella memoria – l’unico supporto a disposizione – ogni particolare di Fumetto.
Automobili
Fu il secondo LP della mia vita. Fintanto che Bufalo Bill (di De Gregori, il mio primissimo vinile, ricevuto in regalo per la Cresima) e Automobili restarono gli unici due LP in nostro possesso, io e mio fratello A. li ascoltammo integralmente tutte le sere, quasi fosse un dovere. In realtà eravamo così affamati di musica da consumare senza sosta quel che avevamo a disposizione. Di Automobili conosco ogni singola battuta, so a memoria le parti di tutti gli strumenti, ricordo gli arrangiamenti in dettaglio. È un disco in cui Ron fa un lavoro egregio al piano elettrico. Io, bambina, mi lasciavo trasportare sulle strade di un'Italia mai vista, che tuttavia riuscivo a visualizzare con assoluta naturalezza: sulle note ansiogene e incalzanti di Nuvolari, riuscivo addirittura a percepirne l'odore. Più che un disco era un film, uno spettacolo teatrale: vedevo l'ingorgo in autostrada, vedevo Gianni Agnelli e Tazio Nuvolari, trattenevo il fiato, respiravo la polvere, la benzina e le campagne. Assorbivo inconsapevole la poesia di Roberto Roversi.
Il potere che offende
All'epoca usava, quando si apprezzava un artista, risalire a ritroso la sua discografia, scavare nel passato in cerca di altri tesori. Nel caso di Lucio Dalla, prima di Automobili, c'erano autentiche miniere da scandagliare.
Il giorno aveva cinque teste e Anidride Solforosa, nati dalla collaborazione con Roberto Roversi, sono precisamente i due dischi che cercavo nel negozio di Pedro: sia chiaro, una copia di entrambi i lavori è ancora custodita come in un museo nella casa in cui sono nata e cresciuta. Ma si dà il caso che questi, più che dischi, siano autentiche pietre angolari e ritengo che anche la casa che abito ora abbia diritto a custodirne una copia. Sono dischi difficili, duri e meravigliosi. Non sempre comprensibili per la bambina che ero allora, mi aprirono tuttavia gli occhi: erano dischi che leggevano la realtà, non la trasformavano, non la nascondevano. Il carcere minorile di Torino, le fabbriche, l'immigrazione dal Sud, la solitudine, le pianure assolate, i diversi volti del potere. E il genio di Dalla compositore qui tocca vertici inarrivabili.
E lontano lontano si può dire di tutto
Certo ora tutti reclamano un pezzetto di Lucio Dalla, la sua carriera sarà smembrata in una miriade di reliquie virtuali. Come canta De Gregori a proposito di Luigi Tenco “Tutti dicevano: io sono stato suo padre/purché lo spettacolo non finisca". Qualcuno poi avrà il cattivo gusto del cinismo, si fregerà di qualche maldicenza pur di svettare nel coro dei dolenti. Come se ce ne fregasse qualcosa delle sue scelte di vita e di tutto ciò che non sappiamo. "Lontano lontano si può dire di tutto".
Leggo sui giornali che l'altra settimana Lucio Dalla era a Sanremo (a dirigere una pessima canzone e un pessimo interprete, come testimonia YouTube). La cosa non mi stupisce e neanche mi riguarda: proprio mentre Lucio Dalla era a Sanremo, io stavo cercando i suoi vecchi capolavori in un incredibile negozio di dischi di Berlino.
È valsa davvero la pena, l'altra sera, sfidare ghiacci e intemperie polari per raggiungere il recital di Ian Bostridge a Varese. "Quale impianto stereo potrebbe mai restituirci tutto questo?" si è chiesto Fabio Sartorelli, direttore artistico della Stagione, alla fine del concerto. Domanda retorica. Perché non di sola voce (e che voce) si è trattato. La presenza, tanto per cominciare. Perché quale registrazione, per quanto impeccabile, potrebbe trasmettere il fascino dolente di Bostridge, la naturalezza, l'approccio informale, la camicia sbottonata sotto la giacchetta, la mano che afferra il pianoforte in cerca di un sostegno, un punto fermo in un vortice di emozioni?
E poi c'è l'arte del racconto. Nessun leggìo, nessuna partitura. Le liriche di Heine, Bostridge ce le ha restituite come le avesse partorite lui stesso la notte precedente il concerto.
Sia lode poi a Graham Johnson, una vita per il Lied: mai invasivo e mai anonimo, meglio di chiunque altro conosce il segreto dell'equilibrio perfetto tra canto e pianoforte.
Oltre gli impeti schumanniani e le malinconie brahmsiane, un buio gelido assediava le strade cittadine; ma nella bella sala settecentesca di Palazzo Estense la temperatura emotiva era altissima.
Ebbene sì, anche la creatura si è smaterializzata e da qualche giorno vagola per la rete sotto forma di e-book, acquistabile un po' ovunque nel formato desiderato. Purtroppo non ho motivo di essere soddisfatta perché, come temevo, il mio editore non ha fatto un buon lavoro. Il layout - almeno per quanto riguarda la versione per kindle, l'unica che io abbia potuto visionare - è quasi disastroso. Le pagine del diario di Lynn non sono contraddistinte dal corsivo e lo stesso vale per i frammenti poetici o le e-mail di Alex. Le note al testo sono state collocate al termine di ciascuna delle due parti di cui si compone ogni capitolo, col bel risultato che la connessione fra passato e presente si disperde insieme alla concentrazione del lettore.
Dulcis in fundo, manca l'indice!
Del resto, cosa aspettarsi da un editore che non mi ha ancora corrisposto nemmeno una parte della modestissima percentuale sul venduto dell'edizione cartacea?
Chiaro che la prossima volta, se mai ce ne sarà una, farò tutto da sola; il tempo non mi ha offerto occasioni per modificare la mia opinione - radicalmente negativa - circa l'editoria italiana in genere. Ciononostante auguro comunque buon viaggio alla e-creatura: spero che incontri lettori clementi, disposti a perdonarne i difetti congeniti, che non mi è stato concesso di eliminare, e le grossolane mancanze indipendenti dalla mia volontà.
"Scrivere storie, scrivere libri, è cosa ferocemente solitaria, anche quando viene fatta da madri di famiglia, sul bordo del tavolo da pranzo, in momenti rubati"