domenica 10 giugno 2012

La stanchezza mangia l'anima

Il temporale di stanotte ha abbattuto la mia dalia. Il suo bocciolo promettente era una delle poche cose che desse un senso a questo grigissimo scorrere dei giorni. Il bluesman sostiene che la dalia e il suo gambo energico ce la faranno, si rimetteranno in piedi presto. Sarà: ma alla luce dei nuvoloni neri che vanno addensandosi, mi è difficile credere alla resurrezione della dalia.
Esattamente trent'anni fa moriva Rainer Werner Fassbinder. A 17 anni, grazie alla Rai, avevo già visto tutti i suoi film più importanti, Berlin Alexanderplatz (integrale) compreso. Attraversai gli ultimi giorni di scuola con lo stesso animo desolato e schifato che mi ritrovo oggi: in classe certo non c'era nessuno con cui potessi condividere quella perdita. Era un dolore troppo privato, così privato che anche oggi mi disturba parlarne. I miei compagni pensavano alle vacanze, ma io non avevo vacanze in programma. Ricordo che mi comprai un sacco di classici tascabili supereconomici - Alfieri, Camus e chissà che altro - e trascorsi i primi giorni d'estate chiusa nella mia stanza a leggere.
Un paio di mesi più tardi, mio fratello A., con uno di quegli slanci paternalistici che ancora oggi ogni tanto sono costretta a rimproverargli, decise che ci avrebbe fatto bene visitare un po' di Germania. In un dorato giorno di fine agosto facemmo tappa ad Altdorf, consumando all'ombra di un albero secolare, nei pressi del convento dei cappuccini, le frugali provviste di cui ci aveva dotati nostra madre.  Ci vide un anziano signore in completo e cappello nero, barba bianca e bastone da passeggio, che, nel silenzio assolato dell'ora più calda, percorreva il sentiero con pensosa determinazione. Era uno di quei giorni perfetti dai contorni nettissimi che solo la fine dell'estate sa regalare. Ebbi la sensazione di essere finita dentro un libro di Hermann Hesse e mi vergognai un poco delle briciole di plum-cake che andavo spargendo e del frusciare della carta stagnola.
Zurigo, Monaco e Stoccarda, dove giungemmo all'ora malinconica del tramonto: un gruppo di orchestrali - le donne in neri abiti svolazzanti - raggiungeva il luogo dell'esibizione. A differenza di noi due, tutti in quella città, a quell'ora, avevano una destinazione, un luogo da raggiungere. Dormimmo in una specie di bettola - credo che ci tornò utile l'essenziale tedesco turistico appreso nel corso delle vacanze infantili in Alto Adige - e la mattina ci fu servita una devastante colazione germanica. Dopo qualche giorno facemmo rientro in Italia attraverso il passo del Giovo: essendo rimasti quasi senza benzina, percorremmo tutto il passo in discesa a motore spento fino a Vipiteno.
Non provo alcuna nostalgia. Sono stata raramente felice nella mia giovinezza e, forse per questo, ho sempre provato una singolare attrazione per le persone infelici. Quel che rimpiango è la capacità che avevo un tempo di percepire una perdita come un'ingiustizia, e, conseguentemente, di reagirvi con una sfida. Oggi vivo il mio tempo come un'oppressione senza speranza, un dovere insensato senza via d'uscita.

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