lunedì 23 luglio 2012

To live at all is miracle enough

Come diceva una canzone assai in voga nei tristi anni della mia infanzia, la valigia sul letto è quella di un lungo viaggio; in realtà, in programma non ho una vacanza, ma un soggiorno - lungo non si sa quanto - presso un ospedale varesino.
Da qualche tempo, ben prima di poter sospettare il triste verdetto, contemplavo l'inutilità dei miei giorni con lo stesso invincibile scoramento che invade il protagonista del racconto di Poe alla vista della casa degli Usher. Braccata e oppressa senza via d'uscita, sapevo che qualcosa doveva accadere.  Tristemente, dimostrando scarsa fantasia, - ci sono così tanti modi per mettere alla prova il proprio attaccamento alla vita: scalare gli ottomila, fare il cooperante, ricominciare da zero in Nuova Zelanda e via dicendo -, l'unica exit strategy che sono riuscita ad escogitare è stata la malattia; e ciò nonostante la piena consapevolezza del mio potenziale autodistruttivo e degli effetti disastrosi che quel certo malessere psichico ha sul sistema immunitario. Sono dunque un'irriducibile, irrimediabilmente votata all'autodistruzione?
Ancora non lo so. Non vedo l'ora di entrare in sala operatoria per tranciar via di netto tutti i i miei fallimenti e le mie esitazioni; ma che razza di me stessa emergerà dall'anestesia è difficile a dirsi. Non ho ancora deciso.
Dice bene Patricia Petibon in una bella intervista sull'ultimo numero di Diapason: "Aussi vital que soit le travail d'équipe, il arrive toujours un moment où le chanteur est seul face au public, seul comme au jour de notre mort.". Un cantante fa delle scelte ben precise quando si assume la responsabilità di un ruolo - non a caso Patricia Petibon, dopo aver associato il proprio nome alle arie di coloratura dell'opera barocca, è approdata alla Lulu di Berg. È certo più intelligente, e psicologicamente più sano, sfidare se stessi su un palcoscenico che in sala operatoria. Mi pento e mi dolgo della mia pigrizia - o del mio innato autolesionismo - che ha accartocciato dentro di me la creativa per far emergere un'improbabilissimo individuo normale. In sala operatoria si è soli di fronte al proprio destino come quando si muore; e si è nudi e impotenti come quando si nasce. Uno snodo cruciale in un punto cruciale della mia vita.

C'era una quantità di libri e film di cui avrei voluto parlare. Non l'ho fatto perché avevo smarrito la voce, mi sentivo come chi non ha più casa. Ero perfettamente consapevole di aver perso il controllo della mia vita. Ero in balia degli eventi, attendevo solo di essere aggredita dal destino: mi chiedevo solo che maschera avrebbe scelto, il destino, per presentarsi alla mia porta e chieder conto della mia sciagurata inanità.
Naturalmente ora rimpiango di non aver vissuto abbastanza, di aver dato troppa importanza a ciò che avrebbe potuto non averne. Riconosco di non aver saputo guidare la mia esistenza. Non resta molto da dire. Al bisturi la sentenza. Se mai dovessi ritornare a scrivere su queste pagine virtuali, lo giuro, non sarà per raccontare la malattia. Come scrisse Mervyn Peake, "to live at all is miracle enough".

venerdì 20 luglio 2012

A sense of insufferable gloom

"Durante un giorno triste, cupo, senza suono, verso il finire dell'anno, un giorno in cui le nubi pendevano opprimentemente basse nei cieli, io avevo attraversato solo, a cavallo, un tratto di regione singolarmente desolato, finché ero venuto a trovarmi, mentre già si addensavano le ombre della sera, in prossimità della malinconica casa degli Usher. Non so come fu, ma al primo sguardo ch'io diedi all'edificio, un senso intollerabile di abbattimento invase il mio spirito.
Contemplai la scena che mi si stendeva dinanzi, la casa, l'aspetto della tenuta, i muri squallidi, le finestre simili a occhiaie vuote, i pochi giunchi maleolenti, alcuni bianchi tronchi d'albero ricoperti di muffa; contemplai ogni cosa con tale depressione d'animo ch'io non saprei paragonarla ad alcuna sensazione terrestre se non al risveglio del fumatore d'oppio, l'amaro ritorno alla vita quotidiana, il pauroso squarciarsi del velo. Sentivo attorno a me una freddezza, uno scoramento, una nausea, un'invincibile stanchezza di pensiero che nessun pungolo dell'immaginazione avrebbe saputo affinare ed esaltare in alcunché di sublime."

Edgar Allan Poe, Il crollo della casa degli Usher (Trad. M.Gallone, BUR)

giovedì 19 luglio 2012

Tutto passerà, come fumo dai bianchi meli

Non ho rimpianti, non chiamo, non piango,
tutto passerà, come fumo dai bianchi meli.
Afferrato dall'oro dell'appassimento
Io non sarò mai più giovane.

Tu ora non batterai più così,
Cuore, toccato dal freddo,
E il paese intessuto di betulle
non mi attirerà a bighellonare a piedi nudi.

Spirito di vagabondo! Tu sempre più di rado, di rado
Fai muovere la fiamma delle labbra
O mia freschezza perduta,
Ardire degli occhi e piena di sentimenti.

Tutti noi, tutti noi in questo mondo siamo destinati a morire,
Dagli aceri quieto fluisce il rame delle foglie...
Sii tu per sempre benedetto,
Tu che sei venuto per fiorire e morire.

Sergej Esenin, 1921 (trad. E.Bazzarelli)

giovedì 5 luglio 2012

L'importanza di essere gentili

Una Tac è una Tac, è chiaro. E il mezzo di contrasto è quel liquidino che, una volta in vena, per una manciata di secondi ti fa sentire incandescente. Se però ad accompagnarti in una simile indesiderata avventura ci sono persone gentili, pazienti, comprensive, che provano a distoglierti dalle tue ansie, che ti chiedono mille volte come ti senti, se è tutto ok, se ce la fai da solo o hai bisogno di una mano, a esame ultimato almeno non ti resta addosso niente di traumatico; il che, in tempi di malattia, non è poco.
Milletrecento euro al mese guadagna una persona che ha il delicato compito di accogliere creature (d'ogni età, indole e povenienza) impaurite, prepararle all'esame, iniettare loro il liquido e badare che tutto funzioni a dovere. Milletrecento euro e un impiego diviso tra due ospedali ("ci mandano una settimana qua e una là"). Dopo trent'anni di lavoro.
Qualcuno mi dirà che, stipendio o non stipendio, la gentilezza, al pari del coraggio, uno non se la può dare. È vero fino ad un certo punto. Perché se è ovvio che la gentilezza in una persona non è direttamente proporzionale allo stipendio, è altamente probabile che un trattamento economico e umano inadeguato - per non dire umiliante - generino disamore per la professione. Se l'immenso capitale umano e professionale del personale medico e paramedico continuerà ad essere gestito esclusivamente secondo le fredde logiche dell'economia aziendale possiamo aspettarci solo il declino di un sistema sanitario nazionale che, in linea di massima, resta invidiabile. Certo la gentilezza di medici e infermieri da sola non cura, ma non ho dubbi sul fatto che aiuti a guarire.