giovedì 29 luglio 2010

Anima in pena

Oggi mi è stata fatta una proposta di collaborazione piuttosto allettante: niente di travolgente dal punto di vista economico, però di sicuro qualcosa di creativo con possibilità di ulteriori sviluppi. Cioè, roba da prendere al volo, direbbe chiunque. Da non pensarci sopra neanche un attimo, direi io a chi mi chiedesse un consiglio in proposito.
E invece. Invece sono qui a ripetermi che non ce la farò mai, non ne ho le capacità, non avrò il tempo, figurarsi la competenza. Sento già l'ansia strozzarmi il respiro. Sono così stanca. Lasciatemi nel mio brodo autolesionista, ve ne prego.

lunedì 26 luglio 2010

Un disco per l'estate

"Chi glielo dice a chi è giovane adesso di quante volte si possa sbagliare,
fino al disgusto di ricominciare perchè ogni volta è poi sempre lo stesso.
Eppure il mondo continua e va avanti con noi o senza e ogni cosa si crea
su ciò che muore e ogni nuova idea su vecchie idee e ogni gioia su pianti.

Ma più che triste ora è buffo pensare a tutti i giorni che abbiamo sprecati,
a tutti gli attimi lasciati andare e ai miti belli delle nostre estati.

Dopo l'inverno e l'angoscia in città quei lunghi mesi sdraiati davanti,

liberazione del fiume e dei monti e linfa aspra della nostra età.
Quei giorni spesi a parlare di niente sdraiati al sole inseguendo la vita,
come l'avessimo sempre capita, come qualcosa capito per sempre.
[…]
Io dico sempre non voglio capire, ma è come un vizio sottile e più penso

più mi ritrovo questo vuoto immenso e per rimedio soltanto il dormire.
E poi ogni giorno mi torno a svegliare e resto incredulo, non vorrei alzarmi,
ma vivo ancora e son lì ad aspettarmi le mie domande, il mio niente, il mio male..."

Francesco Guccini, Canzone per Piero, in Stanze di vita quotidiana
, 1974

domenica 25 luglio 2010

"Correre" di Jean Echenoz


Mi piace molto lo stile di Jean Echenoz: una scrittura elegantissima e al tempo stesso informale. L’apparente naturalezza del racconto nasconde in realtà la cura maniacale del dettaglio: è una scrittura molto controllata, nessun vocabolo è lì per caso e il ritmo della frase è imprescindibile.
“Un cognome, Zátopek, che non diceva niente, che era solo un buffo cognome, e ora echeggia universalmente in tre sillabe mobili e meccaniche, implacabile valzer a tre tempi, rumore di galoppo, rombo di turbina, ticchettio di bielle o di valvole ritmato dal k finale, preceduto dalla z iniziale che già schizza via: fai zzz e in un attimo schizza via, come se questa consonante fosse uno starter.”

Accesso vietato al discorso diretto che infatti non irrompe mai nel racconto ma viene sempre filtrato attraverso lo sguardo ironico e distaccato del narratore.
Quello di Echenoz è uno stile sobrio e ricercatissimo che scolpisce i personaggi, anche i più diversi fra loro, con estrema precisione; per quanto strano possa sembrare, uno stile assai duttile che si adegua facilmente, aderisce al personaggio - tanto allo scrupoloso, nevrotico esteta Ravel quanto all’umile atleta fai-da-te eroe della Cecoslovacchia comunista – con estrema versatilità e ne scolpisce un profilo indelebile.

L’impressione è che raccontare, o provare a interpretare un personaggio, sia in realtà per Echenoz il pretesto per immergersi in un’epoca, assaggiare un determinato periodo storico, provare a viverlo attraverso le vite degli altri. Credo che il vero oggetto d’indagine di questo libro non sia la vicenda biografica o la personalità di Emil Zátopek quanto piuttosto l’invincibile stupidità umana che si applica e si replica con assoluta regolarità nell’esercizio del potere.

mercoledì 21 luglio 2010

AATT news


Bella l'idea di rendere disponibile online un vecchio numero (1991) della rivista francese Prémonition interamente dedicato ai miei amatissimi And Also The Trees. Il file è perfettamente stampabile e sfogliabile online come una vera rivista. Storia, interviste, tre tracce live (sound un po' compresso purtroppo), liriche e una gran quantità di foto da morire di nostalgia (anche se devo dire che Simon Huw Jones con gli anni ha acquistato una dose di fascino supplementare).

martedì 20 luglio 2010

La ginestra che esplose (stati di allucinazione burroughsiana presumibilmente dovuti a eccessivo consumo di zucchine)

In questi giorni mi sveglio regolarmente col mal di testa, neanche fossi reduce da chissà quali bagordi. Gli occhi ancora incollati, do il via al bucato quotidiano, poi brancolo sotto la doccia. Ancora in stato di assoluta incoscienza, dopo aver messo a scaldare la piastra per lisciare i capelli, riempio il thermos di caffelatte. Poi la macchina mi guida e mi parcheggia automaticamente poco lontano dall'ufficio.
L'aria del mattino è gravida di biada e letame: tutto molto ecologico, se solo mi trovassi sui sentieri di montagna della mia infanzia; ma qui siamo nella per niente ridente campagna comasca e io sto trafficando col badge aziendale affinché il cancello rantoli mestamente a ritroso.
Ricevo i fornitori - umili e gentili come re magi che però dall'Oriente portano solo pessime notizie e depositano sulla mia scrivania quotazioni astronomiche - in stato di ebbrezza da caffelatte. Mentre nascondo briciole di cracker sotto la tastiera del pc, apprendo che la situazione è catastrofica, il baco si rifiuta di collaborare (e perché mai dovrebbe, povero? a lui che gliene viene?), sono i cinesi a dettare le regole e la nostra vita dipende dalle millimetriche oscillazioni del dollaro. Tutto molto triste, convengo, chiedendomi segretamente se gli effluvi del mio Diorissimo stiano persistendo intatti o se siano stati intaccati dalla breve traversata ecologica.
Ce la faremo, dunque? Non credo.
Sospiro rassegnata e mentalmente aggiungo un altro articolo - un adattatore - alla lista della spesa pre-partenza.
Qualcosa succederà, concludo per tranquillizzare tutti, qualcosa finirà per scoppiare, come le bacche grigioviolacee della ginestra che crepitano le loro piccole, secche esplosioni nell'arsura del giorno. L'unica cosa certa, per il momento, è che io e il bluesman assumeremo presto una colorazione verdastra, causa eccessivo consumo di zucchine e cetrioli.
Un vero peccato che William Burroughs non abbia avuto a disposizione una ginestra esplosiva e il nostro iperproduttivo orto di zucchine allucinogene.

venerdì 16 luglio 2010

Lewis Carroll e la camera oscura


Una pubblicazione molto interessante, questo “Camera oscura” di Simonetta Agnello Hornby, che purtroppo si limita ad un racconto: una materia così delicata, che ruota attorno alla personalità ambigua quanto geniale di Lewis Carroll, forse avrebbe avuto bisogno di un romanzo per essere analizzata in tutta la sua sfaccettata complessità. La brevità della narrazione –non bisogna dimenticare però che si tratta di un lavoro su commissione – sacrifica purtroppo certi nodi cruciali come l’incontro fra la giovane protagonista Ruth e una ormai matura Alice Liddell, la mitica Alice che fece la fortuna di Dodgson/Carroll. Anche l’affrancamento psicologico e affettivo di Ruth dallo scrittore viene risolto in modo piuttosto sbrigativo e convenzionale.
Decisamente più articolata ed efficace risulta invece l’analisi della nascita del sentimento di Ruth bambina nei confronti Carroll, all’epoca personalità illustre e di indubbio fascino, nonostante la fama non sempre cristallina di individuo bizzarro.

Gli estratti dalle lettere autentiche di Carroll, abilmente intrecciate nel racconto, delineano una personalità singolare e inquietante: la passione per la fotografia rasenta piuttosto la maniacalità, tanto più che è volta a ritrarre solo bambine sotto i quattordici anni, possibilmente senza vestiti. Accanto alla tenera età, le altre prerogative essenziali dei soggetti di Dodgson sono bellezza e “baciabilità”. Un limite, quello dei baci, oltre il quale il fotografo deve essersi spinto verosimilmente solo con la fantasia.

Affetto da balbuzie come le sette sorelle, Dodgson fu avviato alla carriera clericale per convenienza, fu ordinato diacono ma si rifiutò di diventare sacerdote. Vittima di una situazione famigliare opprimente, sfogò nelle creazioni fantastiche il bisogno di ricrearsi una realtà alternativa: da qui anche la necessità di dar vita ad un alter ego ideale – Lewis Carroll, appunto – cui erano concesse le celebri e per quel tempo inusitate incursioni nel mondo della fantasia. In qualche modo, credo che nella sua espressione squisitamente creativa anche la necessità di ritrarre i corpi delle bambine originasse da un’esigenza di bello assoluto, di fuga dal presente: la fotografia, prima di concretizzarsi e cronicizzarsi in un’ossessione erotica, doveva aver rappresentato la risposta più immediata all’impulso di fermare attraverso l’immagine un’ideale tempo/luogo di perfezione. Quella di Carroll è una fotografia che non intende rappresentare, quanto piuttosto ricreare un ideale. Una creazione finalizzata all’illusione del possesso.
Del resto era proprio col pretesto del candore dei propri soggetti che Dodgson abbindolava i genitori delle bimbe che intendeva ritrarre svestite; genitori che si lasciavano persuadere piuttosto facilmente, mossi dall’ambizione di possedere ritratti eseguiti con l’innovativo mezzo della fotografia, per di più da un personaggio molto in voga. Vertici dell’ipocrisia vittoriana, naturalmente, ben sottolineati da Simonetta Agnello Hornby.

Se è vero che Dodgson non abusò mai sessualmente delle proprie piccole modelle, è indubbio tuttavia che, con la complicità dei loro genitori, le sfruttò per i propri scopi. Ma i pubblicitari dei nostri giorni si comportano forse diversamente? Ho visto bimbe di cinque anni (e anche meno) partecipare a sfilate e sfiancanti sedute fotografiche per pubblicizzare i modelli di stilisti di grido. Ho visto queste bimbe trasformarsi in spocchiosissime adulte in miniatura, ogni loro desiderio esaudito da madri ebbre di ambizione. Una delle tante dimostrazioni di come i genitori possano essere i nemici più accaniti dei propri figli.

Il bel libretto edito da Skira è arricchito da una intelligente postfazione dell'autrice e dalla versione integrale di alcune lettere autentiche di Charles Dodgson: sono lettere caratterizzate da assoluta stravaganza, sfacciataggine e gelido formalismo, al punto che paiono scritte da uno dei tanti bizzarri personaggi che popolano le pagine di Carroll. Il volume è ulteriormente impreziosito dalle riproduzioni di alcuni ritratti di bambine: si tratta di documenti davvero interessanti che, per via del clima malinconico che li caratterizza, dicono molto del gusto di un’epoca e non mancheranno di sorprendere quanti hanno apprezzato in Lewis Carroll solo il fantasioso ideatore del meraviglioso mondo di Alice.

mercoledì 14 luglio 2010

With windmills turning wrong directions

Con i mulini a vento che girano a rovescio,
E i segnali indicanti in alto e in basso,
Rovina e redenzione,
Non c'è dubbio che il vento in cui precipitano,
Non volano, le cornacchie, sia un vento d'inganni:
Gioca tiri ribaldi con valori e intenzioni,
Guida e soffia maligno, perché le allodole
Trovano arduo sfrecciare sulle nuvole;
Verso Londra è girato, e turbe assetate
Di uomini con camicie di flanella
E ragazze con cappelli infiorati
Intenti a visitare i luoghi famosi,
Viaggiano nei loro torpedoni su strade
Che conducono a sordide città
Sudice di garage e d'insegne di tè a buon mercato.

La fede nel divino risolverebbe molte cose,
Perché allora il vento fallace sarebbe con certezza
Vento del diavolo, e l'alta trinità
Sarebbe incolpevole dei misfatti ventosi.

Ma le vie sono cambiate, e molte vie conducono
In luoghi diversi da quelli indicati
Da chi progettò gli ovvii percorsi
E ora, sbagliando direzione,
Su miglia di pietre miliari orizzontali,
Perplessi oltre le perplessità,
Torcono le loro povere budella.

Il vento è mutato, ha rovesciato
Il manto del buio e della luce,
Reso insignificante il significato. Il vento dell'errore
S'agita, gonfio, vecchio di veleno, da una bocca crostosa.
Soffia il vento mutato, e c'è una scelta di segnali
Girati verso il Cielo, e pie turbe
Di neofiti che imboccano strade alterate.

(Dylan Thomas, With windmills turning wrong directions, traduzione A. Marianni)

domenica 11 luglio 2010

Tempi moderni

Sulla parete dietro il bancone della farmacia scorgo l'inconfondibile logo blu di Facebook: compare un po' dappertutto, ormai, e io quasi non ci faccio caso. Ma una curiosità quasi automatica si insinua nella mia testolina lessa e dunque mi costringo a leggere distintamente ciò che mi era parso poc'anzi:
"La Farmacia XXX è su Facebook. Diventa fan!"
Qualcuno ha idea di cosa significhi essere fan di una farmacia? Qualcuno sente il bisogno di levare il pollice (like!) o inviare cuoricini, baci e richieste di amicizia a una farmacia?

Un breve ricordo

“In realtà non fa poi così freddo, il 7 marzo, per festeggiare i suoi cinquantatré anni con un sacco di gente fra cui Gershwin, che ha voluto rivedere per sentirlo suonare The man I love. L’altro ovviamente accetta e dopo cena ce la mette tutta per convincerlo a dargli lezioni di composizione, ma Ravel oppone un secco rifiuto, sottolineando che rischierebbe di perdere la sua spontaneità melodica, non si vede a che scopo, fra l’altro, tutt’al più per diventare la brutta copia di Ravel. C’è anche il fatto che avere allievi non gli piace e poi, andiamo, questo Gershwin, sembra proprio che il successo universale non gli basti più, punta in alto ma gli mancano i mezzi, offrirglieli per distruggerlo?, no, non è proprio il caso. Insomma Ravel si defila, è piuttosto seccato.”
(Da Ravel di Jean Echenoz, Adelphi)
Per ricordare Gershwin ero tentata di proporre The man I love nella bellissima interpretazione che ne fece Liza Minnelli all'epoca del film New York New York. Però questa Janis Joplin in bianco e nero è più coerente con la mia persistente malinconia estiva. Fa sempre uno strano effetto, poi, pensare che Gershwin e Ravel se ne andarono lo stesso anno e per la stessa ragione.


giovedì 8 luglio 2010

L'inascoltabile Allevi

Confesso candidamente che, prima di venerdì scorso, non avevo mai avuto occasione di ascoltare una singola nota di Giovanni Allevi. Sicura di poter convivere tranquillamente con questa lacuna, non mi ero mai data pena di colmarla, e avrei continuato a coltivare la mia condizione di beata ignoranza se Allevi non si fosse presentato a sorpresa sul palco luganese di Piazza della Riforma, subito dopo il concerto di Bill Evans e Robben Ford (del quale mi piace ricordare l’aria da eterno ragazzino e il temerario abbinamento pantalone viola/maglia petrolio, abbinamento già osato in passato, anche se in senso inverso, dalla divina Joni Mitchell – vedere lo sterepitoso dvd Shadows and Light per credere – ma va da sé che La Divina, con la voce e il talento che si ritrovava all’epoca, poteva permettersi ogni stravaganza cromatica) e immediatamente prima dell’esibizione dei Level 42.

Fino a venerdì scorso, dunque, la mia assoluta, neutrale indifferenza nei confronti del compositore marchigiano poggiava serafica su una serie di informazioni del tutto contrastanti tra loro: i miei amici, specie se musicisti, ne dicevano peste e corna; i giornali ne magnificavano i successi; i fans lo glorificavano; e lui, una volta che ebbi modo di sentirlo parlare alla Rete Uno della Radio Svizzera, dimostrava di essere un tipo simpaticissimo, spiritoso e per nulla scemo.

Ma così sono fatta io, che un musicista lo giudico per la sua musica, non per quanto fa ridere. E Allevi, per un minuto, può risultare anche simpatico, con quell’aria da svampito timidone che sembra gli capiti tutto per caso e i riccioloni neri e gli occhiali e la parlata popolaresca; ma a un certo punto ti viene il sospetto che tutta quella timidezza adolescenziale, che forse un tempo c’è stata davvero, adesso non è che una posa, una maschera utile a fare istantaneamente breccia nel cuore di madri e figlie.
E alla fine non sai più dove finisce il cabaret e dove ha inizio la musica. Perché quando comincia la musica cominciano le svenevolezze romanticheggianti, lungo la parabola discendente che partendo dal Michael Nyman di Lezioni di piano, attraversa l’intera produzione di Ludovico Einaudi e affonda appunto nella tastiera melensa di Allevi.
Venerdì sera, tra il pubblico di Lugano, c’erano signore che ascoltavano ad occhi chiusi, rapite in estasi; io invece mi accasciavo penzoloni sulla transenna cercando di tenere attivo il cervello per individuare una logica, un barlume di coerenza in quella musica mielosa che avrebbe potuto venir buona, tutt’al più, come sigla di una qualche sit-com americana della mia giovinezza.
Ma la sapienza di Allevi sta nell’alternare queste scempiaggini con docce fredde di brani simil-jazz-d’avanguardia: una specie di Chick Corea che scimmiotta Schoenberg e lo fa senza grazia alcuna, senza gusto, senza coerenza ritmica né stilistica. Non so, probabilmente sono io che sono limitata, ma devo confessare che della musica di Allevi non ho capito niente. Questo è il punto: non posso neanche dire che non mi sia piaciuto perché, di fatto, non ci ho capito niente.
Non capisco perché un pezzo di Allevi comincia e perché, a un certo punto, finisce.
Ho sopportato cinque (o sei?) brani – ringraziando il cielo brevi – sapientemente alternati tra melenso e scioccante, ma ognuno nel suo genere indistinguibile dall’altro: ancora cinque minuti e sarei stramazzata al suolo, nonostante la transenna.
Nel segreto del mio cuore ho anche ringraziato la sorte che qualche anno fa mi ha voluta impiegata e non più venditrice di dischi. Perché per lunghi anni ho tollerato quanti venivano a chiedermi “musica classica tipo Richard Claydermann”; per lunghi, indimenticabili anni ho sbolognato - con cortesia professionale, si intende - gli orfani di Lezioni di piano con dosi massicce di Einaudi e George Winston; ma giuro che oggi non avrei animo di reagire con efficiente cortesia a chi mi chiedesse “qualcosa tipo Giovanni Allevi”.

mercoledì 7 luglio 2010

Summer melancholia

L’estate mi diventa ogni anno più faticosa. Di questa stagione, ormai mi sono ridotta ad amare la luce serale, che mi ricorda certi vecchi libri di storie svizzere, e poi i sandali e le mie unghie smaltate. Detestabili al massimo grado gli uomini in bermuda e infradito, per i quali la libera circolazione dovrebbe essere ammessa solo nelle località balneari; parimenti insopportabili alla vista le grosse tette tremolanti esibite in ogni occasione con la disinvoltura e il cattivo gusto tipici delle presentatrici televisive in voga.

Avrei dovuto raccontare dei concerti di Lugano, del famigerato Giovanni Allevi, della puntata al festival jazz di Ascona (mai più ad Ascona!): non so perché non abbiano ancora inventato una memoria esterna, un hardware rimovibile da collegare al cervello per registrare i pensieri e scaricarli poi sul pc. Lì per lì ogni particolare sembra degno di essere raccontato, poi a casa ogni immagine trascolora, subentra la stanchezza o la gelosia nei confronti di un’emozione (la certezza di non essere capiti), o semplicemente la malinconia.

Non c’entra nulla con quanto detto fin qui, però sento il bisogno di ricordare che fu esattamente trentatrè anni fa che misi piede nel Regno Unito per la prima volta: era il 7/7/77, per chi crede ai numeri e ai loro significati. A Victoria Station c’erano dei punk con borchie e catene e creste verdi e io pensai “Oddìo, ma allora esistono davvero i capelli verdi!”. Imparai con mia grande sorpresa che l’inglese era tutt’altra cosa rispetto a quello che c’era sul mio libro di testo: in bocca agli inglesi suonava diverso persino dalla lingua delle canzoni e appresi con sgomento che purple non si pronunciava affatto parpol. (vedi alla voce Deep Purple). Mi capitò di vedere anche la Regina: mi sfiorò quasi – me e centinaia di altre persone, of course - in un’auto perfettamente nera e scintillante. Indossava un abito rosa favola e sembrava anche carina mentre sorrideva salutando tutti con un guantato gesto regale.

domenica 4 luglio 2010

giovedì 1 luglio 2010

Luglio

Non si capisce perché la gatta consideri una leccornia l'acqua che stagna nei bidoni di raccolta. Comunque il basilico cresce rigoglioso e non ci possiamo nemmeno lamentare delle zucchine: io non faccio che cucinarne i fiori (ma non li friggo, li faccio stufare per condirci la pasta).
Accanto al mio letto c'è ancora una pila di libri sui quali ogni giorno mi riprometto di scrivere qualcosa ma la faccenda va avanti da settimane, così è chiaro che quella torretta sghemba è lì con l'unico scopo di crollare miseramente al prossimo passaggio maldestro dell'aspirapolvere.
Incredibilmente ho molto lavoro ma sia in ufficio sia in fabbrica si respira un'aria malsana: sembra sia in atto una guerra di tutti contro tutti.
Le zanzare sono noiosissime e purtroppo il nostro affezionato ospite notturno, il pipistrello Vincenzino, proprio quest'anno ha deciso di traslocare presso qualche altra trave, disertando il nostro balcone. Vincenzino torna, ti prego.