sabato 28 aprile 2012

Centro di gravità isolante

È uno di quei periodi in cui mi fa particolarmente male vivere. Qualsiasi cosa fa male. Certo la primavera coi suoi estremismi è fatta apposta per acuire questo stato di cose, e questo stato di cose mi rende particolarmente intollerante nei confronti degli imbecilli. Il che spiega perché l'altro giorno mi sia riuscito così facile mandare a quel paese il mio capo. Il quale ha poi reagito bonariamente cercando - senza successo - di minimizzare e ricucire lo strappo ("sembrava Berlusconi" a detta di un giovane collega presente alla zuffa).

Sta di fatto che stamane sono uscita di casa intenzionata ad acquistare un ombrello per il bluesman - essendo il suo andato distrutto durante una discussione particolarmente vivace in un'alba di tempesta - e mi sono ritrovata invece a girovagare senza meta per il centro di Varese. Dovevo anche andare a cercare un certo libro, ora che ci penso. Invece mi sono lasciata distrarre da un paio di simpatiche chanel che "bucavano" la vetrina di un negozio di calzature conservatrici: di vernice rosa bordate di rosso e viceversa, mi hanno fatto pensare a quei bizzarri modelli di Vivienne Westwood - con applicazione di golosissime ciliegie scarlatte o lucide sfere blu del tipo addobbo natalizio - viste a Londra un paio d'anni fa; tanto più che queste, se ho capito bene, andrebbero indossate spaiate, cioè su un piede una scarpa rosa bordata di rosso, sull'altro la rossa con rilievi rosa. Ricordo di aver letto da qualche parte che Helena Bonham Carter si presentò ad una serata di gala con scarpe di diverso colore. Certe arditezze in uno storico negozio conservatore del centro di Varese mi impressionano.
E che dire delle mid season promotions ostentate con falsa naturalezza da Benetton, Stefanel e Levi's?
Intanto però scopro che in Piazza del Podestà - Piazza del Garibaldino secondo la preferibile vulgata locale - ha aperto una boutique Dior nella quale tante piccole borsette dai colori orribili occupano ciascuna uno scaffale di cristallo. Poco più avanti sfavilla l'enorme, recentissima boutique Gucci. Quanto a Hermès, corre voce in città che "lavori tantissimo".

Constatato che anche dopo due caffè, il secondo dei quali offerto dall'estetista - sì sempre quella che non saprebbe cosa fare a Londra - la situazione non accennava a migliorare, mi sono dovuta arrendere all'evidenza: quando niente sembra andare per il verso giusto, quando nulla sembra fare veramente la differenza, quando non c'è bussola in grado di dare indicazioni, è il momento di comprare un paio di scarpe. Scarpe, sandali: non ha importanza. Una delle ragioni per cui ho imparato ad amare l'inverno è la possibilità che mi offre di indossare robuste scarpe di foggia maschile, quando non militare: uno spesso strato di pelle e gomma contro tutto. In estate do sfogo alla voglia di zeppa. Zeppa e plateau, possibilmente, o un tacco sufficientemente alto da staccarmi da terra, qualcosa che funzioni da isolante nei confronti della realtà.
I sandali  che ho comprato stamattina hanno un valore aggiunto: le borchie anni '70 mi ricordano i tanto agognati zoccoli della mia preadolescenza: non un periodo felice, ma un tempo in cui sognare era vitale e l'istinto di sopravvivenza ancora intatto. Quasi che le mie nuove zeppe borchiate - dotate pure di corda e fibbie ben evidenti per un surplus di dettagli seventies - richiamando una mia antica identità, potessero in qualche modo ricollocarmi sulle strade del mondo, riavvicinarmi a un possibile centro di gravità. Un centro di gravità del tutto privato, sia chiaro, e soprattutto staccato da terra di almeno una dozzina di centimetri.

mercoledì 25 aprile 2012

25 Aprile


"Su molte facce intorno c'era il dubbio
e la stanchezza.
Ma non su quella di Dante di Nanni."

sabato 21 aprile 2012

venerdì 20 aprile 2012

La Petite Messe Solennelle di Rossini a Varese: a ciascuno la propria rivoluzione

Appollaiata in posizione strategica in una cappella del transetto, in attesa della piccola messa solenne rossiniana, non riesco a staccarmi dai protagonisti del romanzo che ho appena finito di leggere. Tra le due opere – Pure di Andrew Miller e la Petite Messe Solennelle – non c’è alcuna relazione; eppure sento qualcosa di appropriato, quasi necessario, in questo abbinamento voluto dal caso.

Mi chiedo se non sia Parigi l’elemento forte in grado di trascinare fin qui, fino a questo altare di marmo chiaro - le due file di sedie che attendono il coro, i due pianoforti smaglianti e l’harmonium collocato al centro - la suggestione di un romanzo cupo, intriso di pioggia e putridume. Non è Parigi, concludo: eccezion fatta per qualche traccia linguistica, qualche arcaismo di chiara ascendenza francese, Pure è un romanzo profondamente inglese – solo gli inglesi sanno titillarsi così magistralmente col macabro, solo un inglese poteva accingersi con tanto stile alla descrizione dello svuotamento di un vecchio cimitero ammorbante. In ogni caso la Parigi in cui l’ingegnere Jean Baptiste Baratte compie la propria missione purificatrice è una Parigi che di lì a poco sarà stravolta dalla Rivoluzione, mentre Rossini concepisce la sua ultima opera importante in una città che ha ormai cambiato pelle più volte.

C’è però in entrambi i lavori il senso di una solitudine ostinata, un disagio esistenziale insopprimibile, un percorso intimo che, nonostante tutto, non può fare a meno di scavalcare le faglie della storia: una sofferenza individuale che, scavo dopo scavo, o nota su nota, sopravvive ai movimenti tellurici delle epoche e porta a compimento il proprio destino.

La famosa "fragilità" – oggi diremmo sbrigativamente depressione - di cui si doleva Rossini nel dorato e volontario esilio parigino era anche disagio nei confronti del Nuovo in arrivo (il wagnerismo rampante) e dell’onnipresente ipocrisia. Baratte, nel dissotterrare scheletri su scheletri (e pure qualche cadavere), vede distintamente come i sogni di gioventù non coincidano con la realtà, prende atto del fallimento di un idealismo finito letteralmente sotto terra. In questo confronto tra vecchio e nuovo, nel conflitto tra antichi splendori e fine del sogno, la tentazione di gettare la spugna è per entrambi fortissima.

Forse è proprio il Potere, la monumentale, granitica stoltezza del Potere a sollecitare la dignità dei due uomini – entrambi stranieri a Parigi - feriti dalla vita: il giovane ingegnere che dalla Normandia giunge in città con l’illusione di dare una svolta al proprio futuro e il compositore italiano di successo in crisi creativa. Lo scontro fra l’intelligenza dell’uomo e l’assurdità del Potere scatena una reazione propulsiva. Nel condurre a termine la propria missione impossibile – dissotterrare decine di migliaia di scheletri, ma si tratta di ordini impartiti direttamente da Versailles! -, scavando fuori e dentro di sé, Baratte si libera anche della propria zavorra individuale, di un vincolante retaggio famigliare.
Quanto a Rossini mi riesce difficile immaginare, per un compositore dell’epoca, un gesto più rivoluzionario della creazione di una messa da camera, in aperto dissenso con la bolla papale che impediva alle donne di cantare nei luoghi di culto. Mai il compositore avrebbe sottomesso la propria arte, la propria ispirazione e, perché no, la propria fede ad una assurda bolla papale. Una messa da camera più moderna di tanta musica ormai in voga nei teatri d’opera del tempo. Una messa che più soggettiva di così non potrebbe essere, con azzardi melodici e armonici che sembrano non avere fine e un pianoforte (harmonium e secondo pianoforte servono essenzialmente a rimpolpare il suono in alcuni frangenti) che sostiene tutto quanto: coro, solisti, l’intera struttura dell’opera. Una parte tecnicamente non troppo impervia che tuttavia necessita di un pianista dotato di una profonda sensibilità operistica (in questo senso massima lode a Vincenzo Scalera).
La Basilica di San Vittore rifulge in tutto il suo splendore barocco e non potrebbe essere più lontana dalla chiesa semidiroccata, annessa al cimitero degli Innocenti, che viene rasa al suolo nel romanzo di Andrew Miller. E improvvisamente mi ricordo che la parola conclusiva del romanzo è luce.

sabato 14 aprile 2012

Wuthering Heights di Andrea Arnold

Non è rimasto molto del capolavoro di Emily Brontë nella riduzione cinematografica realizzata dalla regista britannica Andrea Arnold: e non mi riferisco solo ai sostanziosi tagli apportati alla vicenda narrata nel romanzo; da parte di Andrea Arnold c'è il preciso intento - dichiarato in numerose interviste - di raccontare la storia secondo il proprio gusto, secondo i propri canoni stilistici. "I really wanted to honour Brontë," the director claimed."Wuthering Heights is a strange, dark and profound book and I wanted to honour that spirit. I made decisions that felt true to me but also true to the spirit of the book."

Per mantenersi fedele allo spirito del romanzo, Arnold imposta il registro dell'asprezza a tutti i livelli: il vento come unica colonna sonora, dialoghi ridotti all'essenziale, povertà e ignoranza, fango e sporcizia raccontati con la tipica ineleganza della macchina da presa a spalla. Per qualche minuto l'idea funziona: è proprio in un mondo fatto di ruvidezze che ha origine il rapporto esclusivo tra Heathcliff e Catherine - per sua natura un rapporto "contro" -, vero nucleo del capolavoro di Emily Brontë. Di fatto, l'iperrealismo di Arnold finisce per avvitarsi su se stesso: e così, dopo un'ora di fango e vento, brughiere senza pace e selvaggina sanguinante, ci siamo fatti un'idea molto chiara del fatto che gli esseri umani sono bru(t)ti e cattivi e il mondo si regge sulle ingiustizie ma siamo a metà film e l'iniziale spaesamento del giovane Heathcliff sembra non avere vie d'uscita, non subire evoluzioni di sorta. Quel che è peggio, per cementare il legame tra i due giovani protagonisti, Arnold decide di introdurre qualche indizio di carnalità morbosa  totalmente estraneo al romanzo e lontanissimo dalla sensibilità di Emily Brontë.
Non paga di ciò, pur di risultare alternativa a tutti i costi, la regista decide che Heathcliff deve essere interpretato da un attore di colore. Scelta piuttosto inefficace dal punto di vista narrativo perché ha l'unico risultato di confinare Heathcliff nel ruolo evidente di schiavo, di "diverso" senza speranza. Colui che nella fantasia di Emily Brontë  viene descritto come "dark skinned gypsy" - definizione vaga e meravigliosa che scatena la fantasia del lettore -, nel film è un bellissimo, taciturno ragazzino di colore costretto a passare la mano, quando è il turno di Heathcliff adulto, a un attore perennemente corrucciato e ripiegato su se stesso che non ha nulla, ma proprio nulla, del magnetismo inquietante di Laurence Olivier nell'indimenticata versione cinematografica di William Wyler.
Lo svolgimento del film è notevolmente sbilanciato a favore del periodo adolescenziale della storia; il rapporto tra Catherine e Heathcliff adulti viene tratteggiato in modo piuttosto sbrigativo ed è un vero peccato perché Kaya Scodelario è un'attrice ineteressantissima che avrebbe saputo esprimere perfettamente la complessa personalità di Cathy: lo spazio che le viene concesso è purtroppo piuttosto limitato.
Ossessionata com'è dal realismo e dai dettagli d'epoca - sembra che alle intepreti femminili sia stato chiesto addirittura di non depilarsi - Arnold trascura completamente l'aspetto gotico della storia, pare del tutto insensibile al concetto di mistero e alle inafferrabili dinamiche della comunicazione extrasensoriale. La scena in cui Heathcliff si avventa sul cadavere dell'amata ricoprendolo di baci, lungi dall'essere gotica, è semplicemente di cattivo gusto. E il tentativo di riesumazione della bara è semplicemente degno di un horror inclassificabile.
Questa recente rilettura di Wuthering Heights è, in estrema sintesi, un tentativo ambizioso non andato a buon fine: più che indagare gli abissi della psiche e restituirci le passioni d'amore come rapporti di potere, Andrea Arnold - al di là di parecchie cadute di stile - ci ha offerto essenzialmente un documentario ben dettagliato delle condizioni di vita nelle campagne inglesi nei primi decenni del secolo diciannovesimo.


martedì 10 aprile 2012

Fuori tutti

Per favore, possiamo archiviare per sempre il Circo Barnum della Padania? Vogliamo una volta per tutte  distogliere lo sguardo da quella sguaiata corte dei miracoli che a forza di lacrime, trote e scope, tracima senza sosta dalle testate dei giornali?
Voglio dire: è davvero il caso di sprecare tante energie per star dietro alle miserie di un movimento infame che non ha più alcuna chance di governare?
Voglio dire: in Siria si continua ad ammazzare senza ritegno e noi siamo ancora qui a chiederci chi sarà il prossimo segretario della Lega. Ma quanto ce ne può fregare?

domenica 8 aprile 2012

La guerra del futuro

Dovrebbero essere 135, tutti pakistani, prevalentemente soldati. Giacciono lassù, in un luogo impervio di terribile bellezza, al confine tra India e Pakistan, sepolti da oltre 20 metri di neve. Con ogni probabilità resteranno lì per sempre. Nessuno li troverà mai. Con certezza nessuno di loro avrebbe voluto trovarsi lì, a combattere una guerra incomprensibile e quasi segreta per il possesso di un ghiacciaio.
Di questa tragedia - l'ennesima storia di anime morte - in Italia si è detto il minimo indispensabile. Il radiogiornale della Radiotelevisione Svizzera di lingua italiana, invece, questa sera ha trasmesso un'intervista al giornalista svizzero Mario Casella  che, per realizzare questo documentarionel 2005 ha trascorso due mesi proprio nel luogo della sciagura: un mese nel campo base pakistano, un mese in quello indiano. Raccontava, Casella, di quei poveri soldati provenienti dalla città, dal mare: gente che non aveva mai visto un ghiacciaio e neanche se lo poteva immaginare. Raccontava della moltitudine di anime morte per congelamento, lassù a 6-7000 metri. Secondo il giornalista svizzero, il senso di questa guerra ad altissima quota che consuma un milione di dollari al giorno, starebbe tutto nell'acqua. Perché dal Siachen, il ghiacciao conteso, appunto, ha origine il fiume Indo e dunque la guerra del ghiaccio è in realtà guerra per il controllo di una sorgente. Una guerra per l'acqua che, secondo Casella, "prefigura i conflitti dei prossimi decenni".

Qui al minuto 17.24 l'intervista.