Appollaiata in posizione strategica in una cappella del transetto, in attesa della piccola messa solenne rossiniana, non riesco a staccarmi dai protagonisti del romanzo che ho appena finito di leggere. Tra le due opere – Pure di Andrew Miller e la Petite Messe Solennelle – non c’è alcuna relazione; eppure sento qualcosa di appropriato, quasi necessario, in questo abbinamento voluto dal caso.
Mi chiedo se non sia Parigi l’elemento forte in grado di trascinare fin qui, fino a questo altare di marmo chiaro - le due file di sedie che attendono il coro, i due pianoforti smaglianti e l’harmonium collocato al centro - la suggestione di un romanzo cupo, intriso di pioggia e putridume. Non è Parigi, concludo: eccezion fatta per qualche traccia linguistica, qualche arcaismo di chiara ascendenza francese, Pure è un romanzo profondamente inglese – solo gli inglesi sanno titillarsi così magistralmente col macabro, solo un inglese poteva accingersi con tanto stile alla descrizione dello svuotamento di un vecchio cimitero ammorbante. In ogni caso la Parigi in cui l’ingegnere Jean Baptiste Baratte compie la propria missione purificatrice è una Parigi che di lì a poco sarà stravolta dalla Rivoluzione, mentre Rossini concepisce la sua ultima opera importante in una città che ha ormai cambiato pelle più volte.
C’è però in entrambi i lavori il senso di una solitudine ostinata, un disagio esistenziale insopprimibile, un percorso intimo che, nonostante tutto, non può fare a meno di scavalcare le faglie della storia: una sofferenza individuale che, scavo dopo scavo, o nota su nota, sopravvive ai movimenti tellurici delle epoche e porta a compimento il proprio destino.
La famosa "fragilità" – oggi diremmo sbrigativamente depressione - di cui si doleva Rossini nel dorato e volontario esilio parigino era anche disagio nei confronti del Nuovo in arrivo (il wagnerismo rampante) e dell’onnipresente ipocrisia. Baratte, nel dissotterrare scheletri su scheletri (e pure qualche cadavere), vede distintamente come i sogni di gioventù non coincidano con la realtà, prende atto del fallimento di un idealismo finito letteralmente sotto terra. In questo confronto tra vecchio e nuovo, nel conflitto tra antichi splendori e fine del sogno, la tentazione di gettare la spugna è per entrambi fortissima.
Forse è proprio il Potere, la monumentale, granitica stoltezza del Potere a sollecitare la dignità dei due uomini – entrambi stranieri a Parigi - feriti dalla vita: il giovane ingegnere che dalla Normandia giunge in città con l’illusione di dare una svolta al proprio futuro e il compositore italiano di successo in crisi creativa. Lo scontro fra l’intelligenza dell’uomo e l’assurdità del Potere scatena una reazione propulsiva. Nel condurre a termine la propria missione impossibile – dissotterrare decine di migliaia di scheletri, ma si tratta di ordini impartiti direttamente da Versailles! -, scavando fuori e dentro di sé, Baratte si libera anche della propria zavorra individuale, di un vincolante retaggio famigliare.
Quanto a Rossini mi riesce difficile immaginare, per un compositore dell’epoca, un gesto più rivoluzionario della creazione di una messa da camera, in aperto dissenso con la bolla papale che impediva alle donne di cantare nei luoghi di culto. Mai il compositore avrebbe sottomesso la propria arte, la propria ispirazione e, perché no, la propria fede ad una assurda bolla papale. Una messa da camera più moderna di tanta musica ormai in voga nei teatri d’opera del tempo. Una messa che più soggettiva di così non potrebbe essere, con azzardi melodici e armonici che sembrano non avere fine e un pianoforte (harmonium e secondo pianoforte servono essenzialmente a rimpolpare il suono in alcuni frangenti) che sostiene tutto quanto: coro, solisti, l’intera struttura dell’opera. Una parte tecnicamente non troppo impervia che tuttavia necessita di un pianista dotato di una profonda sensibilità operistica (in questo senso massima lode a Vincenzo Scalera).
La Basilica di San Vittore rifulge in tutto il suo splendore barocco e non potrebbe essere più lontana dalla chiesa semidiroccata, annessa al cimitero degli Innocenti, che viene rasa al suolo nel romanzo di Andrew Miller. E improvvisamente mi ricordo che la parola conclusiva del romanzo è luce.
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