È valsa davvero la pena, l'altra sera, sfidare ghiacci e intemperie polari per raggiungere il recital di Ian Bostridge a Varese. "Quale impianto stereo potrebbe mai restituirci tutto questo?" si è chiesto Fabio Sartorelli, direttore artistico della Stagione, alla fine del concerto. Domanda retorica. Perché non di sola voce (e che voce) si è trattato. La presenza, tanto per cominciare. Perché quale registrazione, per quanto impeccabile, potrebbe trasmettere il fascino dolente di Bostridge, la naturalezza, l'approccio informale, la camicia sbottonata sotto la giacchetta, la mano che afferra il pianoforte in cerca di un sostegno, un punto fermo in un vortice di emozioni?
E poi c'è l'arte del racconto. Nessun leggìo, nessuna partitura. Le liriche di Heine, Bostridge ce le ha restituite come le avesse partorite lui stesso la notte precedente il concerto.
Sia lode poi a Graham Johnson, una vita per il Lied: mai invasivo e mai anonimo, meglio di chiunque altro conosce il segreto dell'equilibrio perfetto tra canto e pianoforte.
Oltre gli impeti schumanniani e le malinconie brahmsiane, un buio gelido assediava le strade cittadine; ma nella bella sala settecentesca di Palazzo Estense la temperatura emotiva era altissima.
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