Confesso candidamente che, prima di venerdì scorso, non avevo mai avuto occasione di ascoltare una singola nota di Giovanni Allevi. Sicura di poter convivere tranquillamente con questa lacuna, non mi ero mai data pena di colmarla, e avrei continuato a coltivare la mia condizione di beata ignoranza se Allevi non si fosse presentato a sorpresa sul palco luganese di Piazza della Riforma, subito dopo il concerto di Bill Evans e Robben Ford (del quale mi piace ricordare l’aria da eterno ragazzino e il temerario abbinamento pantalone viola/maglia petrolio, abbinamento già osato in passato, anche se in senso inverso, dalla divina Joni Mitchell – vedere lo sterepitoso dvd Shadows and Light per credere – ma va da sé che La Divina, con la voce e il talento che si ritrovava all’epoca, poteva permettersi ogni stravaganza cromatica) e immediatamente prima dell’esibizione dei Level 42.
Fino a venerdì scorso, dunque, la mia assoluta, neutrale indifferenza nei confronti del compositore marchigiano poggiava serafica su una serie di informazioni del tutto contrastanti tra loro: i miei amici, specie se musicisti, ne dicevano peste e corna; i giornali ne magnificavano i successi; i fans lo glorificavano; e lui, una volta che ebbi modo di sentirlo parlare alla Rete Uno della Radio Svizzera, dimostrava di essere un tipo simpaticissimo, spiritoso e per nulla scemo.
Ma così sono fatta io, che un musicista lo giudico per la sua musica, non per quanto fa ridere. E Allevi, per un minuto, può risultare anche simpatico, con quell’aria da svampito timidone che sembra gli capiti tutto per caso e i riccioloni neri e gli occhiali e la parlata popolaresca; ma a un certo punto ti viene il sospetto che tutta quella timidezza adolescenziale, che forse un tempo c’è stata davvero, adesso non è che una posa, una maschera utile a fare istantaneamente breccia nel cuore di madri e figlie.
E alla fine non sai più dove finisce il cabaret e dove ha inizio la musica. Perché quando comincia la musica cominciano le svenevolezze romanticheggianti, lungo la parabola discendente che partendo dal Michael Nyman di Lezioni di piano, attraversa l’intera produzione di Ludovico Einaudi e affonda appunto nella tastiera melensa di Allevi.
Venerdì sera, tra il pubblico di Lugano, c’erano signore che ascoltavano ad occhi chiusi, rapite in estasi; io invece mi accasciavo penzoloni sulla transenna cercando di tenere attivo il cervello per individuare una logica, un barlume di coerenza in quella musica mielosa che avrebbe potuto venir buona, tutt’al più, come sigla di una qualche sit-com americana della mia giovinezza.
Ma la sapienza di Allevi sta nell’alternare queste scempiaggini con docce fredde di brani simil-jazz-d’avanguardia: una specie di Chick Corea che scimmiotta Schoenberg e lo fa senza grazia alcuna, senza gusto, senza coerenza ritmica né stilistica. Non so, probabilmente sono io che sono limitata, ma devo confessare che della musica di Allevi non ho capito niente. Questo è il punto: non posso neanche dire che non mi sia piaciuto perché, di fatto, non ci ho capito niente.
Non capisco perché un pezzo di Allevi comincia e perché, a un certo punto, finisce.
Ho sopportato cinque (o sei?) brani – ringraziando il cielo brevi – sapientemente alternati tra melenso e scioccante, ma ognuno nel suo genere indistinguibile dall’altro: ancora cinque minuti e sarei stramazzata al suolo, nonostante la transenna.
Nel segreto del mio cuore ho anche ringraziato la sorte che qualche anno fa mi ha voluta impiegata e non più venditrice di dischi. Perché per lunghi anni ho tollerato quanti venivano a chiedermi “musica classica tipo Richard Claydermann”; per lunghi, indimenticabili anni ho sbolognato - con cortesia professionale, si intende - gli orfani di Lezioni di piano con dosi massicce di Einaudi e George Winston; ma giuro che oggi non avrei animo di reagire con efficiente cortesia a chi mi chiedesse “qualcosa tipo Giovanni Allevi”.