Un film da cui sono uscita con la necessità di una seconda visione e, in tutta franchezza, anche con l’inconscio shakerato.
Non sono d’accordo con tutti gli illustri critici che vanno sistematicamente demolendo Shutter Island trovandolo troppo lento, troppo ovvio, troppo tutto. Sarà che non ho letto il libro da cui è tratta la sceneggiatura. O sarà magari colpa della mia naïveté se non riesco a squalificare un film del genere solo perché si tratta di un lavoro su commissione: quel che penso è che Scorsese, commissione o no, ha abbastanza mestiere e sapienza visionaria da farsi comunque venire la voglia di restituire al pubblico un’opera destabilizzante, in grado di disturbare nel profondo.
Certo il complotto ordito ai danni di Teddy Daniels è dichiarato fin dalle primissime sequenze: Chuck Aule è palesemente troppo imbranato per essere un agente federale in missione speciale (non sfugge a nessuno, credo, la difficoltà con cui si leva dalla cintola la pistola d’ordinanza); anche il progressivo internamento di Daniels – la vestizione con la divisa da inserviente è il vero inizio della fine - non lascia spazio ad altre interpretazioni. Ma la stratificazione della realtà su più livelli; l’allagamento di questi strati da parte della fantasia (della follia?), del rimorso, del ricordo, della coscienza, della storia; la lotta disperata della mente - peraltro già provata - di Daniels per restare a galla, per decifrare sempre e comunque il tracciato oggettivo e concreto del reale, tutto questo è affrontato a mio avviso con assoluta maestria. Il risultato è che realtà e immaginazione finiscono per essere perfettamente sovrapponibili. Il risultato è che non è più importante ciò che è vero, perché ciò che è vero è solo ciò che crediamo tale. Concetto già largamente esplorato in ambito filosofico e letterario ma pur sempre di straordinaria attualità visto che sta alla base delle più moderne forme di abuso di potere.
Anche l’indagine onirica, territorio dove si può incorrere facilmente in cadute di stile, è condotta in modo sobrio (ovviamente il fatto che la voce dell’inconscio sia affidata alla moglie morta di Daniels è di fondamentale importanza per la corretta interpretazione dei fatti).
Le citazioni dal manuale dell'immaginario horror-gotico ci sono tutte: dalla vorticosa scala a chiocciola alla colata inarrestabile di topi, dalle sinistre celle della disperazione senza fine alla presenza costantemente minacciosa dell’acqua. Evocati tutti gli archetipi dei terrori ancestrali contro i quali, però, l’individuo non può nulla. Finite le storie di eroi, finita la rivincita dell’individuo, cancellata l’identità, nessun trionfo del bene sul male. Il tentativo di Daniels di conciliare le proprie pulsioni primitive di morte e violenza, la volontà di addomesticare l’istinto di vendetta entro i rassicuranti confini della legge non sortisce alcun risultato: è la legge della violenza, ancora una volta, nella desolante visione di Scorsese, a prevalere.
La colonna sonora infine (music supervisor è di nuovo Robbie Robertson) si segnala per la significativa presenza di composizioni tratte dal repertorio della musica colta contemporanea, genere apparentemente elitario che il cinema ha dimostrato essere ben più accessibile di quanto comunemente si pensi.
Certo il complotto ordito ai danni di Teddy Daniels è dichiarato fin dalle primissime sequenze: Chuck Aule è palesemente troppo imbranato per essere un agente federale in missione speciale (non sfugge a nessuno, credo, la difficoltà con cui si leva dalla cintola la pistola d’ordinanza); anche il progressivo internamento di Daniels – la vestizione con la divisa da inserviente è il vero inizio della fine - non lascia spazio ad altre interpretazioni. Ma la stratificazione della realtà su più livelli; l’allagamento di questi strati da parte della fantasia (della follia?), del rimorso, del ricordo, della coscienza, della storia; la lotta disperata della mente - peraltro già provata - di Daniels per restare a galla, per decifrare sempre e comunque il tracciato oggettivo e concreto del reale, tutto questo è affrontato a mio avviso con assoluta maestria. Il risultato è che realtà e immaginazione finiscono per essere perfettamente sovrapponibili. Il risultato è che non è più importante ciò che è vero, perché ciò che è vero è solo ciò che crediamo tale. Concetto già largamente esplorato in ambito filosofico e letterario ma pur sempre di straordinaria attualità visto che sta alla base delle più moderne forme di abuso di potere.
Anche l’indagine onirica, territorio dove si può incorrere facilmente in cadute di stile, è condotta in modo sobrio (ovviamente il fatto che la voce dell’inconscio sia affidata alla moglie morta di Daniels è di fondamentale importanza per la corretta interpretazione dei fatti).
Le citazioni dal manuale dell'immaginario horror-gotico ci sono tutte: dalla vorticosa scala a chiocciola alla colata inarrestabile di topi, dalle sinistre celle della disperazione senza fine alla presenza costantemente minacciosa dell’acqua. Evocati tutti gli archetipi dei terrori ancestrali contro i quali, però, l’individuo non può nulla. Finite le storie di eroi, finita la rivincita dell’individuo, cancellata l’identità, nessun trionfo del bene sul male. Il tentativo di Daniels di conciliare le proprie pulsioni primitive di morte e violenza, la volontà di addomesticare l’istinto di vendetta entro i rassicuranti confini della legge non sortisce alcun risultato: è la legge della violenza, ancora una volta, nella desolante visione di Scorsese, a prevalere.
La colonna sonora infine (music supervisor è di nuovo Robbie Robertson) si segnala per la significativa presenza di composizioni tratte dal repertorio della musica colta contemporanea, genere apparentemente elitario che il cinema ha dimostrato essere ben più accessibile di quanto comunemente si pensi.
2 commenti:
Bellissimo post, condivido la necessità/piacere di una seconda visione. Mi ha impressionato l'assoluta maestria con cui Scorsese ha realizzato il film. Fotografia, inquadrature, scenografia, una direzione impeccabile degli attori - Di Caprio - non è una sorpresa, ma tutti mi sono sembrati perfetti;( e che dire di Max von Sydow che avevo perso di vista e non sapevo se fosse ancora ...con noi!? indistruttibile).
Parlandone con amici mi ero riproposto di prestare attenzione alla colonna sonora (avevo letto che conteneva brani di Giacinto Scelsi che mi incuriosiva):me ne sono "dimenticato"... -ho visto il film- musica,fotografia, facce,colori.
Una sola domanda: ma secondo te "i 'ggiovani autori italiani" vedendo un film del genere si vergognano e decidono di cambiare mestiere? e i nostri attori, almeno arrossiscono? forse se ne potrebbe anche salvare qualcuno... ma se poi i registi sono quello che sono...
un abbraccio, vito
Anche secondo me il film è perfetto da tutti i punti di vista. Di Caprio - che peraltro non mi è mai stato simpatico - è davvero grandissimo: la sua recitazione è fedele in ogni sfumatura all'ambiguità della vicenda. E pure io avevo dato Max von Sydow per disperso. E invece.
Comunque una delle ragioni per cui rivedrei (e certamente rivedrò)il film è proprio la colonna sonora. Tu citi ad esempio Giacinto Scelsi: è un compositore che amo molto e che conosco abbastanza bene, ma giuro che non saprei dire quale scena sia accompagnata dalla sua musica. Sono stata anch'io totalmente risucchiata dalla storia: a parte il quartetto di Mahler, non riesco a ricordare di aver sentito una sola nota. Il che, secondo me, la dice lunga sull'efficacia della regia e, paradossalmente, della colonna sonora.
Quanto al cinema italiano, che dire se non che è sempre la solita storia: nelle sale arrivano solo le solite storie agrodolci, le solite macchiette, i soliti bellocci. E naturalmente il cinema vero, quello che ha realmente qualcosa da dire, si fa anche in Italia. Peccato che però resti confinato ai festival e raggiunga, quando va bene, qualche minuscola sala in qualche grande città.
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