domenica 26 settembre 2010

Piccoli editori in mostra al castello di Belgioioso

Gelida pioggia autunnale, acquitrini e risaie. Il castello di Belgioioso è il luogo più deprimente di tutta la Lombardia e la fiera della piccola editoria che vi si svolge ogni anno durante l'ultimo fine settimana di settembre è un evento stanco e privo di reale significato. Ieri mattina vagavo per le stanze semideserte del castello - 40 espositori in meno su 130 della scorsa edizione - con l'unico desiderio di scambiare le classiche parole di rito col mio editore e poi schizzare via da tutta quella tetraggine.
Non è così che si dà nuova linfa al mercato del libro. Non è così che fa convergere l'attenzione sul vero significato dello scrivere. Atrofia intellettuale e sonnolenza stagnavano ieri più che mai negli opprimenti saloni settecenteschi.
Me ne sono andata via rapida come un furfante, sentendomi in colpa per tutte quelle parole - montagne di parole - accatastate inutilmente e inutilmente esposte.
Il violento clima autunnale, nel frattempo, aveva restituito colore all'ammorbante campagna pavese.
Nei campi dove il frumento giaceva abbattuto dalla pioggia scintillava un'inedita marezzatura gialloverde.

giovedì 23 settembre 2010

An eye for an eye a tooth for a tooth

It began when they come took me from my home
And put me in Dead Row,
Of which I am nearly wholly innocent, you know.
And I'll say it again
I..am..not..afraid..to..die.
I began to warm and chill
To objects and their fields,
A ragged cup, a twisted mop
The face of Jesus in my soup
Those sinister dinner meals
The meal trolley's wicked wheels
A hooked bone rising from my food
All things either good or ungood.

mercoledì 22 settembre 2010

Lezione di inciviltà


Non so quanto possa servire ma io ho firmato comunque
questo appello.

domenica 19 settembre 2010

Lezione di dignità


Santo cielo, è passata quasi una settimana e sui giornali irlandesi ancora se ne parla. Cos'è successo? Che il primo ministro Brian Cowen in occasione di una festicciola di partito ha alzato un po' il gomito, ha fatto il cretino permettendosi di fare il verso a un campione di golf (tale Philip Walton) e, tra un bicchiere e l'altro, ha tirato mattina, forse dimenticando che di lì a poche ore l'aspettava un'intervista radiofonica in diretta sul primo canale della rete nazionale. Com'è andata l'intervista? A quanto leggo è andata, vale a dire che Cowen tutto sommato se l'è cavata senza dire idiozie. La voce impastata di uno che è appena stato buttato giù dal letto, però, sembra l'abbiano notata tutti.
Benché Brian Cowen abbia chiesto pubblicamente scusa per il proprio comportamento irresponsabile - per sua stessa ammissione non confacente al ruolo di un primo ministro - la bagarre stenta a placarsi e la già precaria credibilità del governo sembra minata in modo irreversibile.

Perché racconto questa storiella? Perché, da italiana, trovo che tanta indignazione popolare nei confronti di un politico che si sciroppa una pinta in più sia così teneramente commovente da sembrare quasi buffa. Una notiziola da incorniciare, direi. Per non dimenticare che dignità popolare non è affatto un concetto astratto caduto in disuso.
Foto: da sinistra Brian Cowen, Bertie Ahern (ex primo ministro) e Brian Lenihan (ministro delle finanze).

P.S. grazie a Eleonora per la foto.

giovedì 16 settembre 2010

Il lettore di talento

"[...] se si pretende talento da un editore letterario o da uno scrittore, lo si deve pretendere anche dal lettore. Perché non ci si deve ingannare: il viaggio della lettura passa molte volte attraverso strade impervie che esigono la capacità di emozione intelligente, il desiderio di comprendere l'altro e di avvicinarsi a un linguaggio diverso da quello delle nostre tirannie quotidiane.[...] Le stesse capacità necessarie per scrivere, sono necessarie per leggere. Gli scrittori deludono i lettori, ma succede anche il contrario e i lettori deludono gli scrittori quando in loro cercano solo la conferma del fatto che il mondo è come lo vedono."

(Enrique Vila-Matas, Dublinesque, traduzione Elena Liverani, Feltrinelli)

martedì 14 settembre 2010

Il bianco e il nero

Da qualche giorno sono ritornata al total black look. Come non accadeva da tempo. Come se ciò bastasse a ridurre la mia totale assenza di concentrazione.
Non si può negare però che qualche volta il nero aiuta: isola, semplifica, crea una barriera utile al contenimento del disordine mentale.

A ben pensarci è strano che io non sia riuscita a dire niente del concerto di John Cale. Come se si trattasse di una faccenda troppo privata. Come in effetti era.

White light white heat, mi viene da dire, senza alcuna pretesa di essere originale, perché è un inconsueto candore ad abbagliare il ricordo della serata.
La mia immaginazione da sabato è in silenzioso fermento. Come si sopravvive alla propria leggenda? Probabilmente nel modo più ovvio possibile, cioè cercando di dimenticare di essere una leggenda, ad esempio segnalando con un punto esclamativo su Myspace che il concerto è sold out.
E come ci si sottrae alla terribile responsabilità di aver definitivamente corroso il rock portandone la fine alle estreme conseguenze? Non ci si sottrae ad una simile consapevolezza. Ci si convive. Magari sottomettendosi all’implacabile rigore di un direttore d’orchestra o reclutando qualche mente geniale con cui sintonizzarsi per riattizzare le braci e mettere in ombra ogni possibile epigono. Chissà, forse in questi casi il bianco aiuta.

venerdì 10 settembre 2010

Oltre la siepe

Il rigurgito estivo ha scatenato orde di insetti. Oltre la siepe, a intervalli regolari, vedo sollevarsi sciami turbolenti come di coriandoli, chicchi di riso gettati a una sposa. Un istante di quiete poi il turbine ricomincia a vorticare, folle e incontrollabile come una tempesta di neve. Il cielo è turchino e ogni foglia scintilla. Io sono più inquieta che mai e con nevrotica insistenza getto lo sguardo oltre la siepe; fiuto il cielo, l’aria, il destino. Splendore nell’erba e sciami rotanti. Come sono angusti i confini del mondo: possibile che io abbia già consumato tutte le prospettive? O non è piuttosto arrivato il momento di cambiare il punto di osservazione?

martedì 7 settembre 2010

Flash '80 al Maga di Gallarate: un'occasione sprecata


Considerato che l'ingresso al Maga di Gallarate costa poco meno dell'ingresso al Louvre, mi aspettavo, se non altro, di non essere accolta alla biglietteria da un paio di ragazze distratte, dedite al consueto smaneggio giovanile del cellulare. E da una mostra dedicata agli anni ’80 mi aspettavo evidentemente la rievocazione di un'epoca e della sua estetica.
In realtà, Flash ’80, più che alla mia giovinezza, mi ha rimandata all’infanzia, al tempo in cui facevo il gioco del negozio di scarpe racimolando tutte le calzature disponibili in casa: la scarsità del materiale esposto, peraltro poco rappresentativo, proveniente in gran parte da collezioni private, ha suggerito l’idea di un allestimento casalingo che non ha affatto centrato l’obiettivo. La prospettiva che il Maga offre degli anni ’80 risulta angusta e parziale, un'incongrua commistione fra intenti localistici e l'ambizione - ampiamente disattesa - di stimolare una riflessione globale.

Buona l’idea della proiezione ininterrotta di videoclip musicali, compendio di tendenze e stili a trecentosessanta gradi. Ma la sezione dedicata alla moda risulta spaventosamente brulla: in una sparuta rappresentanza di creazioni d’alta moda che potrebbero appartenere a qualsiasi epoca, grida vendetta la clamorosa assenza di un qualsiasi capo di Giorgio Armani.
Premesso che Armani non è lo stilista con cui più sono in sintonia, è innegabile che fu lui a tracciare le coordinate della moda di quegli anni, fu lui ad ammorbidire (i famosi jeans a vita alta e coscia larga tanto cari ai paninari), a destrutturare (le celebri giacche dalla linea sinuosa), a stondare e fluidificare le forme. Unico reperto interessante, una bella camicia bordeaux con collo a corolla firmata da Romeo Gigli, il cui minimalismo medievaleggiante, all'epoca, si opponeva ideologicamente al rampantismo armaniano.

La sezione dedicata alla musica, che avrebbe dovuto essere fondamentale, soffre purtroppo dei limiti imposti dal suo curatore, Paolo Carù, che ha semplicemente esposto i suoi dischi preferiti usciti negli anni ’80. Piaccia o non piaccia, se si vuole illustrare la produzione discografica del decennio, non si può fingere che Madonna e i Duran Duran non siano mai esistiti. Passi Tom Waits, passi Bruce Springsteen: ma cos’abbia a che vedere Jerry Garcia con gli anni ’80, per me resta un mistero. Secondo me, sul pannello tappezzato di vinili, un posticino per la musica elettronica bisognava trovarlo. Io magari avrei tolto John Mellencamp per far spazio ai B-52’s. E ovviamente mi sarei sentita in dovere di far saltar fuori un angolino per i Depeche Mode o i Cure, al di là della mia sensibilità in materia, semplicemente per la necessità di documentare un’epoca che produsse ex-novo generi musicali con caratteristiche peculiari. E comunque non mi sarei dimenticata di Michael Jackson. Un vero peccato, perché Carù, con la sua cultura musicale pressoché enciclopedica, avrebbe potuto dare un contributo davvero straordinario alla mostra.

Non essendo esperta di arti figurative e design mi astengo dal commentare la sezione dedicata: mi limito a dire che su di me non ha lasciato traccia alcuna, dunque è possibile che anche questa sezione sia stata allestita in modo poco incisivo.

Arriviamo al cinema. Avevo letto di omaggi a Cronenberg, Greenaway, Kieslowski. Può darsi, il punto è che quando sono arrivata io stavano proiettando Ginger e Fred di Fellini che onestamente non mi sembra un film simbolo degli anni'80. Credo che qualsiasi appassionato di cinema – non necessariamente un critico – avrebbe potuto ideare qualcosa di più rappresentativo.

Alla fine del percorso, la letteratura viene semplicemente condensata in un lungo elenco di libri usciti in quegli anni. Chi abbia stilato l’elenco non me lo ricordo più, mea culpa, ma non ho capito la necessità di citare tutti i libri di Tondelli. Non era davvero possibile fare una selezione, limitarsi a uno o due titoli?
Avrei voluto avere con me la macchina fotografica per poter ritrarre quell’elenco infinito, arido e agghiacciante come una lapide commemorativa di soldati caduti per la patria, e ragionarci sopra. Nella mia memoria, in questo momento, oltre ai pluricitati Tondelli e Busi, sopravvivono solo i nomi di Carlo Sgorlon e Daniele Del Giudice. Ah, già, dimenticavo: c’era anche Lara Cardella, con Volevo i pantaloni.

venerdì 3 settembre 2010

Mama Bea Tekielski


L'unico acquisto di rilievo fatto a Londra - da Intoxica, 231 Portobello Road - è una bellissima copia in vinile dell'opera prima di Mama Bea Tekielski.
Mi ero dimenticata di Mama Bea. E dire che l'avevo amata moltissimo ai tempi di
Le Chaos, disco acquistato in occasione di un qualche festival dell'Unità - era ancora il tempo in cui si diceva festival - e rapidamente imparato a memoria. Adoravo la grinta di Mama Bea, la voce immensa dalle mille sfumature, il timbro roco, cosi' profondamente francese, che si apriva volentieri alla sperimentazione, ad un genere di avanguardia che non smetteva mai di rifarsi al rock e alla tradizione.
Je cherche un pays, album d'esordio del 1971, sembra essere l'unico lavoro di Mama Bea ad essere stato ristampato in cd. È il solito problema degli artisti troppo geniali per essere etichettati: ciò che appare inclassificabile viene semplicemente rimosso dagli scaffali dei negozi. Problema risolto alla radice.
Qui c'è la possibilità di farsi un'idea del disco, anche se la qualità audio non rende giustizia ad un lavoro eccellente ed estremamente raffinato per quanto riguarda sia la composizione che gli arrangiamenti: la più classica tradizione francese viene immersa in un sound tipicamente progressive (vedi l'abbondante ricorso al flauto) e su tutto spicca la personalità di Beatrice Tekielski, autrice e interprete singolarissima. Da riscoprire assolutamente.

mercoledì 1 settembre 2010

Settembre

Vegetazione rigogliosa, non il minimo accenno d’autunno e parecchi esempi di imbecillità umana. Così inizia il mese che più detesto, con profili smaglianti ed evidenti segni di declino.
Con saggio realismo, invece, gli uccelli hanno preso a darsi appuntamento sui cavi dell’alta tensione: stazionano a distanza regolare, estremamente sicuri di sé. Catene dentate, onde di filo spinato sembrano legare un traliccio all’altro. Un esercito che s’appresta a sgomberare con gran soddisfazione, si direbbe.
Ovunque è un tripudio d’estate apparente e cieli cristallini, ma il calendario dedicato a Vermeer offre una malinconica veduta di Delft. Inevitabile la grande abbondanza di giallo in primo piano.
“Qualsiasi colore tranne il giallo” raccomando ogni volta che faccio preparare i fiori per la tomba di mio fratello.
“Eh però, il giallo…” sospira il fiorista con rammarico “sapesse come risolve, il giallo…” aggiunge nella speranza di convertirmi.
A pensarci bene la mia è una presa di posizione bell’e buona, perché è vero che in generale il giallo mi provoca una sensazione quasi fisica di disagio, però trovo che le varianti più tenui possano rivelarsi estremamente eleganti, soprattutto se accostate al nero. E mi guardo bene dal dire al fiorista che sì, effettivamente, un po’ di giallo lo potrei anche tollerare, considerato che mio fratello era daltonico e si divertiva a farmi ridere come una pazza indicandomi un rosso smagliante per chiedermi se fosse blu.
La mia, in fondo, è un’ostinazione dura come un dolore, come un ricordo che si vuole difendere a tutti i costi.
Ma non c'è niente da fare: settembre per me è un mese giallo, di un giallo che non riesco a guardare senza stare male. Per questo spero sempre che passi in fretta.