mercoledì 6 gennaio 2010

Como

È un peccato che Como sia una città così cupa e conservatrice, lugubre e ripiegata su se stessa. È un peccato che sia amministrata da emeriti idioti privi di slancio e cultura. Un peccato che sia abitata prevalentemente da gente che pensa a fare soldi e a dare a vedere di averli fatti.

Ieri pomeriggio ci sono finita un po’ a caso, in fuga da certi parenti che avevano paventato una visita. Sia che si acceda alla città da piazza Camerlata, sia che vi si giunga attraverso le gallerie di San Fermo, si resta sgomenti dinanzi al caos urbanistico, al grigiore, al senso di abbandono che affligge gli edifici dormitorio datati anni ‘60. Poi certo il centro storico addolcisce la cupezza opprimente col conforto della storia, ma la serenità non fa mai capolino in questa culla del provincialismo all’ennesima potenza.

Più per senso del dovere che per piacere passo a salutare un ex collega nel negozio ora suo. Il secchio pieno di acqua nera, lo straccio sul pavimento e l’ex collega imbacuccato che saltella per scaldarsi non fanno una bella impressione. Il telefono squilla in continuazione e l’ex collega si ostina a non rispondere con il pretesto che “sarà senz’altro qualche rompipalle”. Il mio concetto di gestione di un'attività commerciale è radicalmente diverso, ma non sono affari miei. Giusto per non uscire a mani vuote compro l’unica cosa comprabile, cioè il primo cd di Antony and the Johnsons (carino ma mi aspettavo di più). Poi fuggo verso il centro storico accompagnata da frotte di ragazzine che consumano gli ultimi scampoli di vacanza ed è così che apprendo che a Como una donna non può definirsi tale se non indossa degli attillatissimi pantaloni in latex nero+All Star oppure minigonna+stivali dotati di plateau e tacco vertiginoso. Preso atto della mia inadeguatezza di campagnola in anfibi e jeans di velluto, mi inoltro tra le viuzze guardandomi in giro come una turista. Forse l’ultima volta che sono passata di qui è stato nel settembre 2007 per una conferenza di Franco Buffoni, penso. Intanto raggiungo la piazzetta San Fedele – davvero bellissima – dove scopro una nuova libreria e dove finalmente compro À rebours di Huysmans, grave lacuna da colmare (come si può dire di aver compreso a fondo Dorian Gray se non si è letto À rebours?).
L’interno della Basilica di San Fedele è sprofondato in un buio arcaico. Lingue di fuoco, minacce medievali, ossa e teschi dietro una grata antica. Sull’altare qualcuno sta lustrando l’interno del tabernacolo e un infelice dal viso paonazzo (tossico o avvinazzato non saprei) si dirige sicuro lungo la navata centrale e chiede insistentemente di parlare con un certo prete. L’uomo dedito alle pulizie lo apostrofa in modo brusco, poi dall’oscurità emerge una figura anziana, forse un prete, che ricaccia l’uomo in malo modo.

Raggiungiamo il lungolago sotto un cielo di ghiaccio. Nei pressi della lunga barricata di legno – preludio al muro antiesondazioni che verrà – spira un vento gelido che puzza di fogna. Tra vestigia liberty e patetiche reminiscenze anni ’60 l’atmosfera è insopportabile.
Ci infiliamo di nuovo nei vicoli del centro storico che pullulano di baretti cozy, vinerie strafighe e boutique di creazioni artigianali (nessuna che brilli per creatività, solo una gran quantità di stracci dai colori improponibili).
Lasciamo i comaschi al loro destino, alle loro imposte stinte, agli aperitivi modaioli, allo smog che tutto impolvera. Abbandoniamo Como al suo declino verso il quale si incaponisce un passo dopo l’altro, un passo dopo l’altro, a testa bassa, lungo il sentiero della conservazione di ciò che non c’è più.

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