martedì 25 dicembre 2012

Christmas blues

Osservo la pioggia, leggera come polvere, mangiarsi impercettibilmente la polpa bianca di una neve vecchia e ostinata. Due giorni fa, lunghe file di auto in coda all'autolavaggio: a che scopo?, mi chiedevo. Bisogna avere l'auto lustra per andare a pranzo dai parenti? O per caricarsi di cibarie al supermercato? E quanto si può arrivare a mangiare? Di quanto di tutto quel cibo abbiamo davvero bisogno?
Natale è un giorno triste sempre, anche quando, come oggi, scelgo di disertare pranzi e aspettative altrui, restando al di qua del vetro ad osservare la pioggia.  Nella bruma incolore si agitano le contese degli uccelli per le ultime delizie d'inverno.

domenica 25 novembre 2012

Le anime morte - II

Quando ho appreso la notizia dell'incendio divampato in una fabbrica tessile in Bangladesh ho pensato immediatamente ai miei nuovi pantaloni di velluto color melanzana, acquistati da Benetton per € 29.95: sono stati prodotti in Bangladesh, forse proprio nello stesso edificio andato in fiamme ieri, o comunque in un casermone analogo, sprovvisto di sistemi di sicurezza, da donne sottopagate. È il genere di abbigliamento che le persone con un reddito medio-basso come il mio (cioè la stragrande maggioranza degli europei, par di capire) si può permettere. Mi sono sentita minuscola e impotente, infimo ingranaggio di un meccanismo inarrestabile; vittima e complice al tempo stesso, mi sono ricordata di questo passo de La Peste di Camus: 
"Da tanto tempo ho vergogna, vergogna da morirne, di esser stato, sebbene da lontano, sebbene in buona fede, anch'io un assassino. Col tempo, mi sono semplicemente accorto che anche i migliori d'altri non potevano, oggi, fare a meno di uccidere o di lasciar uccidere: era nella logica in cui vivevano, e noi non possiamo fare un gesto in questo mondo senza correre il rischio di fare morire. Sì, ho continuato ad aver vergogna, e ho capito questo, che tutti eravamo nella peste; e ho perduto la pace. Ancor oggi la cerco, tentando di capire tutti e di non essere il nemico mrtale di nessuno. So soltanto che bisogna fare quello che occorre per non essere più un appestato, e che questo soltanto ci può far sperare nella pace o, al suo posto, in una buona morte. Questo può dar sollievo agli uomini e, se non salvarli, almeno fargli il minor male possibile e persino, talvolta, un po' di bene. E per questo ho deciso di rifiutare tutto quello che, da vicino o da lontano, per buone o per cattive ragioni, faccia morire o giustifichi che si faccia morire."
 (Traduzione Beniamino Dal Fabbro, Bompiani)

venerdì 23 novembre 2012

Allarmi

Stamattina il chiacchiericcio dei merli era così sguaiato da strapparmi al sonno. Mi sono alzata allarmata, con la sensazione che la piccola comitiva nera si fosse data convegno nel mio giardino per discutere qualche faccenda di particolare gravità. Ma è bastato che aprissi la porta perché l'intera comunità frullasse via all'istante, lasciando dietro sé il silenzio dei rami nudi. 
Le talpe, intanto, procedono incessanti a trapanare campi. 
Quanto a Rebecca, non l'ho mai vista mangiare così tanto: come un neonato, ogni due ore esige un po' di pappa e riesce sempre a estorcermi una dose supplementare di croccantini. Come se si stesse attrezzando contro difficoltà imminenti. Forse l'inverno è alle porte.

In ricordo di Montserrat Figueras (15/03/1942 - 23/11/2011)



mercoledì 14 novembre 2012

Last Leaves of Autumn




 
Oh the leaves how they shimmer
Trees lift their skirts and they quiver
Gently they lay down
To the dirt and dust and ground

They lose their innocence to find it all over
Ain't nothing missing, they 're just high on a feeling
All they need is believing, no reason will do
I'm hanging on like the last leaves of autumn
But I'm coming through like the first shoots of spring
I'm standing outside of space and time
And I'm healing
Believing

I'm ready for a first time feeling
Something I can believe in
I'm ready for a first time feeling
Awaken sleeping season

(Beth Orton, Last Leaves of Autumn, 2012)

lunedì 23 luglio 2012

To live at all is miracle enough

Come diceva una canzone assai in voga nei tristi anni della mia infanzia, la valigia sul letto è quella di un lungo viaggio; in realtà, in programma non ho una vacanza, ma un soggiorno - lungo non si sa quanto - presso un ospedale varesino.
Da qualche tempo, ben prima di poter sospettare il triste verdetto, contemplavo l'inutilità dei miei giorni con lo stesso invincibile scoramento che invade il protagonista del racconto di Poe alla vista della casa degli Usher. Braccata e oppressa senza via d'uscita, sapevo che qualcosa doveva accadere.  Tristemente, dimostrando scarsa fantasia, - ci sono così tanti modi per mettere alla prova il proprio attaccamento alla vita: scalare gli ottomila, fare il cooperante, ricominciare da zero in Nuova Zelanda e via dicendo -, l'unica exit strategy che sono riuscita ad escogitare è stata la malattia; e ciò nonostante la piena consapevolezza del mio potenziale autodistruttivo e degli effetti disastrosi che quel certo malessere psichico ha sul sistema immunitario. Sono dunque un'irriducibile, irrimediabilmente votata all'autodistruzione?
Ancora non lo so. Non vedo l'ora di entrare in sala operatoria per tranciar via di netto tutti i i miei fallimenti e le mie esitazioni; ma che razza di me stessa emergerà dall'anestesia è difficile a dirsi. Non ho ancora deciso.
Dice bene Patricia Petibon in una bella intervista sull'ultimo numero di Diapason: "Aussi vital que soit le travail d'équipe, il arrive toujours un moment où le chanteur est seul face au public, seul comme au jour de notre mort.". Un cantante fa delle scelte ben precise quando si assume la responsabilità di un ruolo - non a caso Patricia Petibon, dopo aver associato il proprio nome alle arie di coloratura dell'opera barocca, è approdata alla Lulu di Berg. È certo più intelligente, e psicologicamente più sano, sfidare se stessi su un palcoscenico che in sala operatoria. Mi pento e mi dolgo della mia pigrizia - o del mio innato autolesionismo - che ha accartocciato dentro di me la creativa per far emergere un'improbabilissimo individuo normale. In sala operatoria si è soli di fronte al proprio destino come quando si muore; e si è nudi e impotenti come quando si nasce. Uno snodo cruciale in un punto cruciale della mia vita.

C'era una quantità di libri e film di cui avrei voluto parlare. Non l'ho fatto perché avevo smarrito la voce, mi sentivo come chi non ha più casa. Ero perfettamente consapevole di aver perso il controllo della mia vita. Ero in balia degli eventi, attendevo solo di essere aggredita dal destino: mi chiedevo solo che maschera avrebbe scelto, il destino, per presentarsi alla mia porta e chieder conto della mia sciagurata inanità.
Naturalmente ora rimpiango di non aver vissuto abbastanza, di aver dato troppa importanza a ciò che avrebbe potuto non averne. Riconosco di non aver saputo guidare la mia esistenza. Non resta molto da dire. Al bisturi la sentenza. Se mai dovessi ritornare a scrivere su queste pagine virtuali, lo giuro, non sarà per raccontare la malattia. Come scrisse Mervyn Peake, "to live at all is miracle enough".

venerdì 20 luglio 2012

A sense of insufferable gloom

"Durante un giorno triste, cupo, senza suono, verso il finire dell'anno, un giorno in cui le nubi pendevano opprimentemente basse nei cieli, io avevo attraversato solo, a cavallo, un tratto di regione singolarmente desolato, finché ero venuto a trovarmi, mentre già si addensavano le ombre della sera, in prossimità della malinconica casa degli Usher. Non so come fu, ma al primo sguardo ch'io diedi all'edificio, un senso intollerabile di abbattimento invase il mio spirito.
Contemplai la scena che mi si stendeva dinanzi, la casa, l'aspetto della tenuta, i muri squallidi, le finestre simili a occhiaie vuote, i pochi giunchi maleolenti, alcuni bianchi tronchi d'albero ricoperti di muffa; contemplai ogni cosa con tale depressione d'animo ch'io non saprei paragonarla ad alcuna sensazione terrestre se non al risveglio del fumatore d'oppio, l'amaro ritorno alla vita quotidiana, il pauroso squarciarsi del velo. Sentivo attorno a me una freddezza, uno scoramento, una nausea, un'invincibile stanchezza di pensiero che nessun pungolo dell'immaginazione avrebbe saputo affinare ed esaltare in alcunché di sublime."

Edgar Allan Poe, Il crollo della casa degli Usher (Trad. M.Gallone, BUR)