martedì 18 gennaio 2011

Il punto della situazione

Sull'altro piatto della bilancia c'è che sono in cassa integrazione straordinaria e da dopodomani il mio futuro lavorativo diventa più incerto che mai. Va da sè che non ho nessuna voglia di scrivere. E ieri sera ho pure litigato furiosamente con la gatta.

domenica 16 gennaio 2011

martedì 11 gennaio 2011

Anna Calvi:"The early things stick with you"

‘Locked away in a basement, making an album in isolation, you do start going a bit crazy. So a lot of material came out of that – how to survive the making of this monster that took over three years of my life.’
‘When I play live I’m a different person,’ Anna smiles, sweetly. ‘I feel powerful and fearless. All the things I wish I felt in everyday life.’
‘It’s a record about the internal forces in life which are out of your control and can take you over, and how you survive them. It explores intimacy, passion and loneliness. There is an element of darkness to the record but there is also a sense of hope. This album is the culmination of my whole life up until now.’
And there are good reasons why that life is suffused with a darkness. The story begins with a baby girl, born in London, and struggling to survive. Anna Calvi spent most of her first three years of life in hospital.‘The way I dealt with that was to create my own world. And that’s what my relationship with music is – a world of my own creation that I escape into. I was always a dreamer. The early things stick with you.’
(Qui il resto dell'intervista)

L'ho appena scoperta e la trovo straordinaria. Magari eviterei di tirare per la giacchetta Debussy che poveretto non c'entra neanche per sbaglio. Analogamente trovo del tutto inopportuno parlare di operatic vocals. Diciamo più semplicemente che Anna Calvi ha una bella voce e la sa usare con intelligenza. Più che a PJ Harvey mi viene naturale fare riferimento alla Siouxsie dei tempi d'oro.
Per un assaggio, i traballanti video di Youtube mi paiono poco efficaci: meglio affidarsi a questa pagina del Guardian.

domenica 9 gennaio 2011

Hereafter di Clint Eastwood

Quella di cui parla il film di Clint Eastwood non è la morte, o meglio l'immagine, sovente molto cruenta, della morte che ci viene servita a colazione, pranzo e cena dai programmi televisivi: Eastwood mette in scena la morte quotidiana, ovvero l'assurdità della vita che improvvisamente si stravolge in tragedia, l'imprevedibilità del destino che prima o poi incrocia le strade di tutti.
 I tre personaggi principali che, seppur in modi diversi, sono toccati direttamente dall'esperienza della morte, parlano un linguaggio incomprensibile a chi li circonda, retrocedono nella categoria dei folli, dei perdenti, dei disadattati. Il punto è che l'esperienza della morte impone loro altre priorità, altri tempi: il loro sguardo sulla vita cambia, la prospettiva muta radicalmente.
Nonostante il titolo, Hereafter è in realtà un film molto umano, molto terrestre - per inciso lo sguardo di Eastwood sui suoi personaggi è sempre carico di una profonda, imparziale empatia - e, se di morale si vuole parlare, il messaggio sembra essere che integrare la consapevolezza della fine nelle nostre esistenze ci rende individui migliori.
Un film senza dubbio molto commovente e molto bello, anche se non perfetto. Un film diviso in due, direi, con un primo tempo davvero convincente per realismo e tensione emotiva ed un secondo tempo che va a stemperarsi gradatamente nell'ovvio rischiando il sentimentalismo.
Va detto che tirare le fila di un intreccio - qui abbiamo tre storie parallele che a un certo punto vanno a intersecarsi - è impresa ardua che richiede raffinato buon gusto e un'immaginazione al limite della visionarietà (da questo punto di vista ritengo che i prodotti cinematografici frutto della collaborazione fra Guillermo Arriaga e Alejandro Iñárritu siano al momento insuperati).  Probabilmente i passaggi zoppicanti del film si annidano nella sceneggiatura: di fatto il momento clou dell'intreccio mi pare un po' raffazzonato e il finale perde il ritmo. E forse un altro attore al posto di Matt Damon avrebbe saputo regalare al personaggio di George un po' di sana inquietudine.  

mercoledì 5 gennaio 2011

martedì 4 gennaio 2011

Di ben altre rivoluzioni

Faccio sogni orribili di questi tempi. Mi sveglio agitata e confusa ed è una gran fatica riagguantare la realtà e misurare la relativa ragionevolezza dei miei problemi: un sollievo al confronto delle ombre mostruose che si riassorbono lentamente dentro il cuscino.

Avrei fatto volentieri a meno della restaurazione dell’Epifania: l’ennesima palese strumentalizzazione della religione per fini commerciali. E per me l’ennesimo slalom tra inviti a pranzo, visite indesiderate a chiacchiere a vuoto.
Non ho progetti per il futuro, non ricordo più cosa significhi avere una prospettiva o la speranza di realizzare qualcosa. Sono in fase ascetica e contemplativa e vado in cerca di luoghi silenziosi. Mi sento singolarmente attratta da tutto ciò che è remoto e primitivo. Pietra, ferro, legno. Ritaglio scorci inediti in luoghi visitati da sempre: gli abbracci rugginosi dei rovi, un tetto smerlato, austere travi addormentate, comignoli che esalano lenti, costanti, consolanti.

Per riconnettermi con la civiltà, per uscire un po’ da questo luogo dimenticato da Dio, dove da mesi non arriva un film guardabile, sto valutando la possibilità di andare a sentire Angela Hewitt a Varese domenica 16. Non che mi aspetti chissà quali emozioni: il programma è terrificante e può giusto incontrare il solido gusto conservatore dell’attempata Varese bene. Devo dire però che ultimamente tutte le mie certezze stanno vacillando e non posso escludere che le volenterose interpretazioni bachiane della Hewitt abbiano effettivamente qualcosa da dire anche a chi non stia preparando l’esame di compimento inferiore di pianoforte (se si chiama ancora così); del resto devo confessare che proprio oggi, incappando nella leggendaria interpretazione delle Quattro Stagioni da parte di Fabio Biondi, raggiunta da certi violenti colpi d’archetto, ho avuto un sussulto e per la prima volta nella mia vita mi sono chiesta se quella rivoluzione portata avanti a forza di corde di budello strappate e percosse, se tutta quella furiosa ruvidezza, insomma, fosse davvero legittima. Non avremo forse preso un abbaglio eleggendo a rivoluzione del gusto e dell’interpretazione ciò che fu solo un isolato grido isterico?

Qualcuno, a questo punto, realizzerà che ho davvero smarrito i miei punti cardinali. Ma forse è solo che in questo momento sono abitata da altri furori e su ben altre rivoluzioni sto meditando ultimamente. Certe gustosissime disquisizioni mi appaiono ora come un lusso lontano.
(nella foto un disegno di Mervyn Peake)

domenica 2 gennaio 2011

Pensierini per l'anno nuovo

"La vicenda Fiat Mirafiori si presenta come un caso esemplare di quello che viene chiamato neomedievalismo istituzionale. Proprio perché viviamo in un mondo senza centro, si dice, il governo dei processi, e la creazione delle regole che li accompagnano, sono ormai appannaggio degli specifici soggetti che agiscono in presa diretta nelle situazioni considerate. Questo legittimerebbe la Fiat, come ogni altro soggetto transnazionale, ad essere insieme imprenditore e legislatore, giudice non solo delle convenienze ma pure dei diritti, a Chicago come a Torino. La domanda è: l'indubbia crisi della sovranità nazionale, determinata dalla globalizzazione, può legittimare il ritorno ad una logica feudale, ad una società delle appartenenze e degli status, dove la pienezza della cittadinanza in fabbrica, ad esempio, è subordinata all'appartenenza a un sindacato? Non è un ritorno agli anni '50 quello che si vuol realizzare, è un tuffo profondo in età lontane, prima della rivoluzione dei diritti dell'uomo."

Qui l'articolo completo di Stefano Rodotà