domenica 24 giugno 2012

Racconto d'estate


Parcheggiò all’ombra dei platani e si sentì al sicuro. Sapeva di aver collocato l’auto perfettamente all’interno del perimetro rettangolare blu: un pensiero che infondeva sollievo. Poteva dormire. Voleva dormire. Chiudere gli occhi e abbandonare il capo. Avrebbe sollevato sospetti nei passanti? Qualcuno si sarebbe permesso di bussare al finestrino e chiedere se tutto era a posto? Probabile. Un tempo nessuno veniva a romperti le scatole se ti addormentavi in macchina. Adesso non si poteva dire. La testa della gente è assediata dalla televisione, pensò: ogni inezia è buona per cavarne una trasmissione. La gente non ha più pace, si disse: i telefoni, internet, i giornali. Trasalì al pensiero delle quattro recensioni che avrebbe dovuto consegnare l’indomani. Quattro recensioni. Gli risultava incomprensibile come la gente riuscisse ancora a creare, scrivere. E scrivere romanzi, poi. A lui le parole erano volate via da un pezzo. Gli piaceva il vocabolo afonìa per descrivere l’appassimento della sua fede nella parola. La disperazione soffoca le parole come il vomito annega il respiro. Una verità lapidaria da trascrivere con urgenza. Ma si ricordò di non avere una penna. Aveva con sè un blocco per appunti, ma non una penna. Si compatì: trascrivere a che scopo?

Lo confortava il pensiero di avere già acquistato in una precedente occasione i tagliandi prepagati per la sosta: non aveva dunque bisogno di trascinarsi fino all’edicola. Si prese del tempo per recuperare energia; restava da decidere in quale bar fare colazione. Pensò al caffè vicino al tribunale, dove le brioche erano bionde, piene di zucchero a velo e per niente burrose, e l’espresso era sempre accompagnato da un preziosissimo bicchierino d’acqua. Ma si sentiva troppo rintronato per fare colazione accanto a giudici e avvocati: tutto in loro - dalle borse di cuoio alle voci acide cariche di sottintesi - gli incuteva soggezione.

Aprì la portiera e incontrò i cubetti di porfido rosso che, nelle zone d'ombra, assumevano la sfumatura di certe foglie d’acero: era la sua città, era al sicuro, finalmente. Non si era mai sentito così parte della città come da quando l’aveva lasciata.
Si decise per il bar delle commesse, sotto i portici, circondato dai grandi magazzini. Non era facile mettere in moto un corpo tanto logoro, costringerlo a dialogare con una mente annebbiata. Lo confortava il pensiero che nel bar delle commesse avrebbe potuto sedersi su una di quelle pratiche sedie arancioni che già gli avevano riscaldato certe gelide mattine invernali.

Nel buio del sottopassaggio si accorse di una giovane donna che avanzava a passo spedito alle sue spalle: la vide riflessa nella vetrina ancora oscurata di uno dei tanti megastore della zona. Si immaginò che fosse giovane per via degli abiti attillati – leggins e maglietta – e della capigliatura sbarazzina ma in realtà poteva distinguerne solo la figura nera, perfettamente omogenea e ben delineata, dentro l’oscurità della vetrina. Vide la figura nera crescere di dimensioni davanti a lui con regolarità, come su uno schermo, e si ricordò improvvisamente di un video di Bill Viola – una mostra, da qualche parte nel mondo - in cui una donna in lunghi abiti scuri – nero e blu inchiostro i colori dominanti – avanzava a passo deciso su una spiaggia o nel deserto, non ricordava con precisione. Ma era il movimento, il movimento regolare, l’incedere, la progressione lenta e inesorabile: era questo a incastrare la sua attenzione, a scolpire finalmente una traccia vitale nella sua immaginazione offuscata.

Scatto della luce, fine del tunnel. Bar delle commesse. Contrariamente alle previsioni, nella saletta solo due uomini di una certa età immersi nella lettura del quotidiano locale. Niente frotte di commesse-ragazzine raggrumate attorno ai tavoli a chiacchierare di unghie e vestiti.
La ragazza che prendeva le ordinazioni gli piaceva perché era sveglia, senza fronzoli e portava occhiali dalla spessa montatura nera. Ha già ordinato, signore? Facciamo un po’ di spazio sul tavolo, vuole, signore? Mi dica, signore! Sì certo! Pratica, educata e veloce. È così che si lavora, pensò. Così gli sarebbe piaciuto lavorare.
Cercò di far durare caffè e brioche il più a lungo possibile e, non sentendosi ancora pronto ad affrontare il giorno, estrasse dallo zaino alcuni articoli stampati da siti di quotidiani stranieri: ne aveva a decine, e alcuni risalivano a settimane prima, e si riferivano a stragi, crisi, tragedie ormai risolte, in un modo o nell'altro, o semplicemente superate da nuove stragi, crisi, tragedie. Non riuscì a mantenere a lungo la concentrazione. La sua immaginazione virò di nuovo verso le installazioni di Bill Viola. Ripensò al video con l'abito scuro della donna che lentissimamente, ma con una progressione inesorabile, arrivava a riempire l'intero campo fino a trasformarsi in un'onda nera palpitante. Chi si fosse imbattuto nel video in quel punto non avrebbe mai potuto immaginare la donna e la sua lunga camminata. Tutti noi abbiamo una visione parziale delle cose, riflettè. E, quel che è peggio, da quella visione limitata, da un frammento, facciamo discendere il nostro concetto di oggettività. La nostra percezione della realtà. Il nostro bene e il nostro male.
Ricacciò gli articoli stranieri alla rinfusa dentro lo zaino, consapevole che stragi, crisi e tragedie non avrebbero mai avuto fine. Lo scoramento provocato da questa considerazione - e dal sospetto che la cronaca doviziosa di tante sciagure non fosse altro che una perversione utile solo ad alimentare la spirale - gli fece dimenticare la voglia di ritornare all'inizio del tunnel ad osservare altre figure - non certo la sua - ingigantirsi lentamente dentro lo schermo nero della vetrina.
Nella luce schiacciante del primo mattino si risvegliava la vita molle dei primi giorni senza scuola: le fermate degli autobus poco affollate, mamme coi figli appresso - ma solo quelli piccoli, però; gli adolescenti, si sa, amano dormire. Non era venuto in città per una ragione precisa, non aveva commisioni da sbrigare: si era semplicemente comprato un paio d'ore di autonomia, due ore di zona franca - l'auto nel perimetro blu, cioè la delimitazione e l'affermazione del suo spazio, un suo diritto, per un paio d'ore incontestabile.
Dopo aver girovagato a caso in qualche grande magazzino si sentì sopraffatto dall'abbondanza grottesca di capi d'abbigliamento in esposizione. Una quantità mostruosa che la città avrebbe potuto smaltire solo in un numero imprecisato di stagioni. La bruttezza dei capi lo affliggeva. Gli abiti destinati alle cerimonie erano patetici senza appello: gusto spagnolo e manifattura cinese davano vita ad un connubio indescrivibile. L'impronta mediorientale - applicazioni in cotone e perline - su giacche destinate a cresime e matrimoni risultava di una sciatteria nauseabonda.
C'era una forma di violenza in quel cattivo gusto imposto alle masse, in quella volgarità seriale che non lasciava margine di scelta. E non volle chiedersi quali mani, in quali condizioni, avessero imperlinato quelle giacche dai colori improbabili.
L'atmosfera  - irrespirabile - era drogata da una palpabile sciatteria della mente, dal totale immobilismo dell'immaginazione.  E tutto questo mentre lui aveva appena scoperto il miracolo del movimento, le energie che un'immagine in movimento può far scaturire. La dimensione contemplativa del movimento.
I rintocchi provenienti dal campanile della basilica lo sollecitarono a ritornare sui suoi passi: le due ore di autonomia erano appena scadute e il rischio di una multa sventolante dal tergicristalli era molto concreto. All'interno dell'auto la temperatura era esplosiva ma lui aveva bisogno di assorbire tutto quel calore. Aveva delle scorie da bruciare.

domenica 10 giugno 2012

La stanchezza mangia l'anima

Il temporale di stanotte ha abbattuto la mia dalia. Il suo bocciolo promettente era una delle poche cose che desse un senso a questo grigissimo scorrere dei giorni. Il bluesman sostiene che la dalia e il suo gambo energico ce la faranno, si rimetteranno in piedi presto. Sarà: ma alla luce dei nuvoloni neri che vanno addensandosi, mi è difficile credere alla resurrezione della dalia.
Esattamente trent'anni fa moriva Rainer Werner Fassbinder. A 17 anni, grazie alla Rai, avevo già visto tutti i suoi film più importanti, Berlin Alexanderplatz (integrale) compreso. Attraversai gli ultimi giorni di scuola con lo stesso animo desolato e schifato che mi ritrovo oggi: in classe certo non c'era nessuno con cui potessi condividere quella perdita. Era un dolore troppo privato, così privato che anche oggi mi disturba parlarne. I miei compagni pensavano alle vacanze, ma io non avevo vacanze in programma. Ricordo che mi comprai un sacco di classici tascabili supereconomici - Alfieri, Camus e chissà che altro - e trascorsi i primi giorni d'estate chiusa nella mia stanza a leggere.
Un paio di mesi più tardi, mio fratello A., con uno di quegli slanci paternalistici che ancora oggi ogni tanto sono costretta a rimproverargli, decise che ci avrebbe fatto bene visitare un po' di Germania. In un dorato giorno di fine agosto facemmo tappa ad Altdorf, consumando all'ombra di un albero secolare, nei pressi del convento dei cappuccini, le frugali provviste di cui ci aveva dotati nostra madre.  Ci vide un anziano signore in completo e cappello nero, barba bianca e bastone da passeggio, che, nel silenzio assolato dell'ora più calda, percorreva il sentiero con pensosa determinazione. Era uno di quei giorni perfetti dai contorni nettissimi che solo la fine dell'estate sa regalare. Ebbi la sensazione di essere finita dentro un libro di Hermann Hesse e mi vergognai un poco delle briciole di plum-cake che andavo spargendo e del frusciare della carta stagnola.
Zurigo, Monaco e Stoccarda, dove giungemmo all'ora malinconica del tramonto: un gruppo di orchestrali - le donne in neri abiti svolazzanti - raggiungeva il luogo dell'esibizione. A differenza di noi due, tutti in quella città, a quell'ora, avevano una destinazione, un luogo da raggiungere. Dormimmo in una specie di bettola - credo che ci tornò utile l'essenziale tedesco turistico appreso nel corso delle vacanze infantili in Alto Adige - e la mattina ci fu servita una devastante colazione germanica. Dopo qualche giorno facemmo rientro in Italia attraverso il passo del Giovo: essendo rimasti quasi senza benzina, percorremmo tutto il passo in discesa a motore spento fino a Vipiteno.
Non provo alcuna nostalgia. Sono stata raramente felice nella mia giovinezza e, forse per questo, ho sempre provato una singolare attrazione per le persone infelici. Quel che rimpiango è la capacità che avevo un tempo di percepire una perdita come un'ingiustizia, e, conseguentemente, di reagirvi con una sfida. Oggi vivo il mio tempo come un'oppressione senza speranza, un dovere insensato senza via d'uscita.

venerdì 1 giugno 2012

I 70 anni di Alberto Radius


Tra gli illustri rockers attempati  - come ama definirli lei - che nel 2012 hanno tagliato il traguardo dei 70 in eccellenti condizioni artistiche, non va assolutamente dimenticato Alberto Radius. Il suono torvo e tagliente della sua chitarra ha caratterizzato buona parte della musica popolare di qualità degli anni '70 e '80; un suono dal retrogusto amaro e vagamente ironico, sostenuto da una raffinatezza nel fraseggio davvero raro nel panorama italiano. Ascoltare Strade dell'Est di Battiato per credere. Felice compleanno Alberto Radius.