Il tratto distintivo di Thomas Zehetmair resta l’essenzialità, il nitore ascetico di un suono mai invasivo, mai sopra le righe; lirico, se serve – e certo nel Concerto di Schumann serve – al punto giusto. Il solo di violino (quasi certamente dalla Sonata di Bernd Alois Zimmermann) regalato come encore al termine del Concerto è stato il momento più coinvolgente di tutta la serata.
Non che l’esecuzione della seconda sinfonia (sempre Schumann) non sia stata all’altezza delle aspettative, beninteso; prevedibilmente, l’Orchestre Des Champs-Élysées ha riposto agile e dinamica alla guida di Herreweghe: dettagli, ceselli, freschezza. Tutto molto lontano dalle sontuose letture della tradizione. Ha preso vita, nel gioiello barocco della basilica, uno spirito puramente romantico, un entusiasmo beethoveniano.
Ma è stato impossibile cedere all’illusione. Impossibile perdere la consapevolezza. Anzi, la percezione netta è stata quella della totale impotenza dell’arte, del suo isolamento: lo scollamento più assoluto tra ideale e reale. Mi chiedo se sia stata questa tragica scoperta a ridurre Schumann alla follia.
La musica si spegne. I suoni caldi dei legni, la dolcezza consolante dell’oboe – è tutto finito. Gli orchestrali si sorridono soddisfatti mentre posano gli strumenti. Un fagotto viene smontato e riposto tra una battuta e l’altra. Quanto a noi, veniamo inesorabilmente riconsegnati al vento gelido. L‘impatto con la realtà non è che un mulinare di nefandezze. Le vie del centro sono deserte. La partita di calcio ha assorbito la gente dentro le case: un momento di distrazione collettiva assolutamente perfetto per il compimento dell’ennesimo crimine governativo. In via Luini, dinanzi all’edificio delle suore della Riparazione, è tornata la calma: la coda di povera gente che stazionava in attesa di un pasto caldo, una tanica d’acqua, un vestito pulito, è stata completamente smaltita.
Ci viene incontro un tale: sappiamo forse indicargli dove si trova la discoteca Tiffany?