È riesplosa in tutta la sua veemenza, la sindrome settembrina. E io che - ingenuamente - avevo sperato di farla franca, quest'anno. Fino a ieri, infatti, i sintomi non si erano manifestati. Sarà stato per via del clima ancora vigorosamente estivo, sarà stato per via di Rebecca, che con le sue fughe, scomparse e ricomparse, non mi lascia molto tempo per pensare; sta di fatto che, in segreto, mi ero illusa di poter aggirare la consueta crisi d'inizio autunno così come mi ero scrollata di dosso tutte le clownesche giravolte governative e relativi conseguenti disastri. Invece l'attacco è arrivato improvviso ieri mattina. Spero che nessuno dei vicini mi abbia vista mentre, le membra mordicchiate dal primo freddo, mi arrestavo a contemplare imbambolata il prato fumante di nebbia. Ah, di certo sapeva bene di cosa stava parlando il buon Mauro Pagani - lui che era nato nella straziante campagna bresciana - quando, quarant'anni fa, insieme a Mogol - altro padano - scrisse il testo di Impressioni di settembre.
La città, poi, non mi è stata d'aiuto. Quando non piove per alcuni giorni, le strade di Varese diventano impraticabili: ci sono escrementi di cane (solo di cane?) un po' ovunque. Un senso di inutilità e desolazione, finto benessere e catastrofe imminente. Sono ritornata il più velocemente possibile e senza rimpianti ai miei boschi dove però ho scoperto nugoli di auto parcheggiate: dimenticavo che questo insopportabile mese, con le sue brume venefiche e le sue fronde agonizzanti, accoglie anche la lucida crudeltà dei cacciatori.
La notte poi è stata un susseguirsi di incubi, dolori e sudori. Stamane, benché ancora incastrata nel sogno dove giacevo in un letto londinese, distinguevo nettamente i movimenti del bluesman in cucina e tentavo disperatamente di dirgli che io sarei andata a fare colazione da Nero giù all'angolo, doppio espresso e blueberry muffin. Poi il vociare dei vicini mi ha strappata via dalle scale londinesi che si svolgevano in un'infinita spirale sotto di me. La vacanza è finita.
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